Quando legge un libro dedicato alla stupidità, il lettore di solito è mosso da prudenza e disagio per due motivi principali. Il primo, immediato, è che ad ogni passo teme di vedersi rappresentato e di riconoscersi in qualche forma di stupidità, di vedersi assegnata una patente da cretino senza essersi candidato. A questo rischio non c’è rimedio ma almeno sono possibili due reazioni alternative che possono funzionare come riscatto: ci si può sdegnare, rievocando la famosa frase «stupido sarà lei», oppure si può accettare il giudizio, così da «riconoscere onestamente che una punta di sciocco in me c’era». Il secondo motivo è più drammatico e inconsolabile: è quello di non capire assolutamente in che consista la stupidità di cui si parla. La cosa, se accade, lascia un disagio, un amaro in bocca, un dubbio non estirpabile e neppure lenibile. Si è travolti da una stupidità ancora più grande e ineffabile, tragicamente propria.

L’atto del riconoscersi

Il libro di Ando Gilardi, che è stato un maestro estroso – dal quale si è pure disposti ad esser presi per fessi, tanto più che non gli mancò una profonda autoironia come dimostra un suo volume intitolato Meglio ladro che fotografo (Bruno Mondadori 2007) – è inequivocabile nelle intenzioni: stanare La stupidità fotografica (Milano, John & Levi, n.10 della collana «Il punto», un piccolo formato che raccoglie interventi sull’immagine con una certa versatilità disciplinare). Un particolare tipo di stupidità, che non è tanto o soltanto quella di chi si pone dietro un apparecchio fotografico con la speranza di fare un buono scatto (chi non si riconoscerebbe in questi tentativi?), ma anche di chi si pone davanti all’obbiettivo per farsi ritrarre con ostentata stupidità (qui il riconoscersi non è indispensabile). La maggior stupidità, tuttavia, appartiene ad altri due casi: è di chi non teme o non sa che la posa diventerà necessariamente stupida col tempo e ancora di chi sulla fotografia ha qualcosa o troppo da dire, magari senza saperne o capirne granché. Tutti serviti, insomma, a qualsiasi livello di utenza, dei propri margini di potenziale stupidità.

Peccato che non sia propriamente un manuale anti stupidità. Ne avrebbe guadagnato in chiarezza e in utilità, mentre quel po’ di sforzo che richiede va a vantaggio del sarcasmo che lo permea. La tesi di fondo di questo breve scritto, che pure affronta tanti argomenti, si può riassumere in modo molto sintetico e ridurre a una semplicità estrema: ogni tentativo di distogliere la fotografia dalla sua unica e banale motivazione, cioè quella di fare una foto, è un atto di stupidità, e se ciò non apparisse subito, prima o poi accadrà di certo. Ridurre così drasticamente il discorso di Gilardi, costruito artificiosamente in forma di dialogo (molto divertente sebbene, purtroppo, quasi privo di contraddittorio) tra lui e Patrizia Piccini (che nel curare lo scritto postumo del grande fotografo e critico piemontese – era nato nel 1921 – ha raccolto un’antologia di interventi brevi scritti nell’arco di 40 anni, fornendo un’appendice assolutamente indispensabile e illuminante, e ancora una ventina di foto, tra cui alcune di Gilardi stesso) potrà dar fastidio, ma ha almeno due riflessi positivi.

Prima di esporre i quali, tuttavia, andrà ricordato che fotografo sia stato Gilardi e un po’ della sua storia, che inizia professionalmente negli anni postbellici, incaricato di acquisire prove fotografiche dei crimini di guerra: da qui la sua familiarità con gli archivi. Continua negli anni ’50 come fotografo de l’Unità e della rivista Il Lavoro della Cgil, mentre è anche, con numerosi interventi scritti, voce essenziale di un dibattito, che forse non si fece mai sufficiente strada nel Partito Comunista, del rapporto tra politica e tecniche della cultura di massa; episodio essenziale è quando nel 1957, insieme al collega Franco Pinna, accompagna Ernesto De Martino in un viaggio di ricerca antropologica in Basilicata. Antonella Russo, nella sua Storia culturale della fotografia, Einaudi 2011, ricorda che Gilardi non fu docile fotografo: aveva intuito una certa artificiosità da parte dei soggetti studiati da De Martino e nelle sue fotografie si peritava di lasciare vedere microfoni e studiosi, con la volontà di documentare soprattutto lo «sguardo medico» piuttosto che i soggetti studiati. A questo periodo, la Fototeca Storica Nazionale ha dedicato la mostra Olive & Bulloni (c’è anche il catalogo, 2009), allestita a Treviso (Fondazione Benetton), Milano (Fondazione Corrente) e lo scorso anno a Parigi (Istituto italiano di cultura), che documenta questo radicatissimo impegno dell’occhio fotografico sulla vita dei lavoratori dei campi e delle officine.

Proprio nei primi anni ’60, con la fondazione della Fototeca, che oggi porta il suo nome e detiene un patrimonio di mezzo milione di foto liberamente consultabile anche in rete, Ando Gilardi consolida la sua attività di organizzatore culturale, di promotore, di critico e di studioso della fotografia. Nel 1976 avrebbe pubblicato uno studio importante, Storia sociale della fotografia (Feltrinelli, ora Bruno Mondadori, 2000), che porta l’impronta, tanto originale quanto discussa, del suo modo di intendere il lavoro fotografico. Spazio alla fotografia spontanea, cioè gli scatti istantanei e dilettantistici (vedi Lo specchio della memoria: fotografia spontanea dalla Shoah a You Tube, B. Mondadori 2008); spazio alla fotografia di immagini, tanto delle opere d’arte quanto dell’illustrazione come la cartellonistica, le locandine, i libri; spazio ancora alla fotografia strumentale, come le foto segnaletiche in particolare, che poco dopo raccolse in Wanted! (Mazzotta 1978, ora B. Mondadori, 2003); nonché alla «pornofoto», che distingueva da quella erotica (vedi Storia della fotografia pornografica, B. Mondadori, 2002).

Antidoti alle sofisticherie

Ma non solo la realtà e l’immediata esecuzione della copia del reale sta nei gusti e nelle passioni fotografiche di Gilardi: anche la deformazione, operata col montaggio e poi col photoshop, è largamente praticata e commentata come una delle espressioni essenziali della riproduzione ottica. Gilardi non era un realista ingenuo, era anzi sensibile ai quei fenomeni di impostura involontaria indotti dai luoghi comuni, tra cui c’è anche il «mettersi in posa»: «Se alzavi la macchina per fotografare un compagno, quello tirava fuori l’Unità e si metteva in posa! Ma vai a cagare, ma vai a cagare, ma piantala lì!», spiegava in modo così colorito a Ferraresi in un’intervista del 2010.

Non si può dire con certezza che avrebbe integralmente sottoscritto ciò che, per esempio, il giornalista e scrittore Paolo Monelli scriveva nei primi anni ’30 a proposito della perduta spontaneità di ogni gesto umano: «Ci ha rovinati la stampa e la fotografia. La menzogna non era di questa terra, prima che gli uomini inventassero gli alfabeti». Però poteva essere almeno uno spunto per quella sua idea più complessa e drastica che ogni forma di rappresentazione fosse necessariamente una riproduzione: e non per le motivazioni metafisiche addotte da Platone ma solo per il fatto che nell’ambito fotografico la copia per lui è verità e origine di ogni immagine.

Come si vede, per Gilardi lo «spazio fotografico» è molto ampio, che addirittura non può essere circoscritto alla tecnica moderna coi suoi apparecchi analogici e digitali. Tramite le tecnologie che erroneamente identifichiamo col fotografare stesso, l’impressione automatica dell’immagine scopre solo la possibilità di fissazione e durata e poi di manipolazione, mentre è da sempre un’azione conosciuta dall’uomo, tramite le ombre, i riflessi, il foro stenopeico, fino alla camera oscura, con lente o senza. Fotografare non è che, letteralmente, «disegnare la luce» e solo questo ci sarebbe di essenziale, quasi bene primario dell’umanità.

Si torna così a uno degli aspetti positivi di quella semplificazione dei discorsi di Gilardi che si era inizialmente proposta, che si capisce non essere segno di faciloneria bensì un atteggiamento di concretezza, antidoto ai rischi di sofisticazione e di sofisticherie intellettuali che riconducono e piegano la fotografia ad aspetti parziali e non condivisi.

Verso l’essenziale

Non bisogna pensare che non avrebbe apprezzato un impegnativo e aggiornatissimo volume antologico come quello proposto da Maurizio Guerri e Francesco Parisi, Filosofia della fotografia (Cortina 2013), ma certo non avrebbe fatto il tifo per nessuna delle tante posizioni lì rappresentate. Un po’ per sufficienza, un po’ per impazienza, un po’ per amore dell’atto pratico, un po’ per amore dell’enorme varietà dell’immagine fotografica.

Semplificare dunque, non per rendere più semplice ma più essenziale, e anche per scongiurare il rischio di stupidità. Ed ecco il secondo riflesso positivo per comprendere la posizione di Gilardi. Chi si mette a interpretare i meccanismi di stupidità, in genere ne è ossessionato come può spaventare un contagio o irritare una costrizione; invece, Gilardi sembra goderne un sacco di tutta questa stupidità da cui si sentiva circondato. Questo dovrebbe tranquillizzare il lettore, abbassare la sua soglia di allarme nell’essere colto in fallo o non capire: attenzione però, tutta questa semplicità, praticata da un uomo che ha avuto non sporadico accesso a milioni di immagini, è anche uno strumento per giocare col lettore come gioca il gatto col topo.