Non si è mai pentito, Luca Traini. Tre mesi dopo il giorno in cui prese la sua Alfa Romeo e cominciò a sparare a tutte le persone con la pelle nera che incontrava per le strade di Macerata (ferendone sei), questa mattina, davanti alla Corte d’Assise della città marchigiana, comincerà il suo processo, dove dovrà rispondere dei reati di strage, tentato omicidio plurimo, danneggiamento, porto d’arma abusivo e altri reati minori, tutto aggravato dall’odio razziale.

E PROPRIO IERI, sul sito del quotidiano romano Il Tempo, sono uscite le immagini del suo primo interrogatorio, avvenuto il 6 febbraio scorso in una stanza del carcere di Ancona, dove tutt’ora è recluso. Con lo sguardo fisso, addirittura vagamente sereno, Traini non rinnega nulla di quello che ha fatto: «Io volevo solo colpire chi spaccia, come quello che ha venduto la droga a Pamela (Mastropietro, la ragazza uccisa e fatta a pezzi nel maceratese pochi giorni prima del suo raid, nda). Non è colpa mia se poi a Macerata tutti gli spacciatori sono neri». E ancora: «Il mio non è stato un raid prettamente razziale, non ho attaccato tutti i neri. Ho rivolto la mia attenzione agli spacciatori, se fossi stato spinto dall’odio avrei colpito anche i negozi degli africani». Va detto che, comunque, tra i sei feriti, tutti africani, nemmeno uno aveva a che fare con lo spaccio di stupefacenti. Un altro colpo della pistola di Traini, tra l’altro, era stato sparato contro la sede locale del Pd. Traini, comunque, nel suo interrogatorio fornisce anche un contesto politico al suo gesto: «In quel periodo forse ce l’avevo più cin il governo che con gli immigrati. Con i dazi messi da Renzi… Tutto questo ha fatto sì che l’ideologia politica che già mi apparteneva si sia estremizzata». Una vittima della propaganda, ed è vero, ma ben consapevole della gravità di un gesto che appare come il primo vero e proprio attentato terroristico compiuto in Italia da diversi anni a questa parte.

TRAINI, QUANDO VENNE fermato, all’ora di pranzo di quel sabato 3 febbraio, si era fatto trovare in piedi sotto al monumento ai caduti di Macerata, avvolto in un tricolore, col braccio destro teso, mentre intonava l’inno nazionale. Sul suo volto spicca ancora un tatuaggio con il simbolo del gruppo neofascista di Terza Posizione, poi è venuta fuori la sua militanza nella Lega, tanto da essere stato anche candidato al consiglio comunale di Corridonia, con zero voti raccolti. Sono tantissime, inoltre, le foto che lo ritraggono ai comizi di Salvini e durante altri eventi di ultradestra.

Nel finale dell’interrogatorio, Traini sembra anche annunciare quella che sarà la propria linea difensiva oggi in aula: la richiesta di rito abbreviato, che prevede automaticamente lo sconto di un terzo della pena, con istanza per una nuova perizia psichiatrica, in modo da poter ottenere la seminfermità mentale, che consentirebbe un’ulteriore diminuzione di un terzo dell’eventuale condanna. Questa la strategia del suo avvocato, Giancarlo Giulianelli, che troverà comunque dall’altra parte almeno dieci parti civili, tra cui il Comune di Macerata.

IL GIOVANE LEGHISTA si è così dichiarato vittima di bullismo in gioventù: «È cominciato tutto quando avevo 14 anni, a scuola. Mi incisi il numero uno sulla mano con il portachiavi del motorino. Pesavo 116 chili a 16 anni, ero preso di mira verbalmente dai bulli. Avevo quest’odio represso dentro, non dico per la società ma per chi non mi accettava».

TRE GIORNI FA, quando a Roma è stato celebrato il funerale di Pamela Mastropietro, Traini si è preoccupato di far arrivare alla madre della ragazza una corona di fiori. Sui social network e su qualche gazzetta locale, il gesto è stato accolto quasi con compiacimento. Un atteggiamento opposto rispetto allo scherno e alla malcelata indignazione con cui è stata appresa la notizia che una delle vittime, la nigeriana Jennifer Otioto, avrebbe intenzione di chiedere 750mila euro a titolo di risarcimento per le ferite subite.