Attentato anti Usa a Bengasi
Crisi libica I jihadisti "ricordano" l’uccisione un anno fa dell’ambasciatore Usa Chris Stevens
Crisi libica I jihadisti "ricordano" l’uccisione un anno fa dell’ambasciatore Usa Chris Stevens
Tra i tanti modi di ricordare il proprio 11 settembre, un gruppo libico che finora non ha rivendicato l’attentato, ha utilizzato un’autobomba che ha fatto esplodere, fortunatamente senza fare vittime, davanti a un edificio di Bengasi che una volta ospitava il consolato degli Stati Uniti a Bengasi al tempo di re Idris. Un atto simbolico che ha danneggiato anche l’immagine del debole governo di Tripoli, distruggendo una parte dell’edificio del ministero degli esteri libico che si trova nella città orientale. Fortunatamente l’esplosione è avvenuta prima dell’ingresso di funzionari e amministrativi nell’edificio governativo.
Il nesso con l’11 settembre dell’anno scorso è fin troppo evidente: un attacco contro l’attuale consolato americano uccise proprio a Bengasi quattro americani, tra cui l’ambasciatore J. Christopher Stevens, uomo di Hillary Clinton e la cui morte innescò una violentissima polemica. Alcuni giorni fa Al Jazeera ha reso noto il contenuto della relazione di un gruppo indipendente di esperti americani di intelligence secondo cui l’attacco alla missione speciale statunitense a Bengasi aveva sfruttato l’incapacità del Dipartimento di Stato di provvedere adeguata sicurezza alle strutture diplomatiche statunitensi in zone ad alto rischio.
Per il rapporto dunque il Dipartimento di Stato sapeva benissimo delle condizioni insicure di ambasciate e consolati in tutto il mondo (quest’estate Washington ha deciso di chiudere 19 sedi diplomatiche all’estero) ma il vertice ignorò avvertimenti e consigli. L’attentato che costò la morte a Christopher Stevens costò anche il posto a David Petraeus anche se la scusa ufficiale fu una love-affair scoperta telematicamente. Chi aveva deciso che a pagare dovesse essere il capo della Cia salvò il presidente e la Clinton e Petraeus fu costretto a dimettersi il 9 novembre, nemmeno un mese dopo l’assassinio dell’ambasciatore.
La bomba di ieri è dunque la ciliegina sulla torta dell’intervento militare del 2011 che scaturì proprio dalla rivolta di Bengasi e che ha lasciato il Paese in una situazione di caos, difficile da mascherare anche se il governo ci ha provato definendo l’attentato “un atto terroristico vile con lo scopo di attaccare la sovranità dello Stato e creare un’immagine di caos”. L’esplosione è avvenuta in pieno centro lungo una via importante di Bengasi e il messaggio è abbastanza chiaro nella capitale che guidò la rivolta e portò alla guerra della Nato. Solo grazie all’intervento «umanitario» atlantico – con, in primis, la Francia bombardante di Sarkozy e poi al seguito gli Usa di Obama alla sua prima guerra diretta – ci fu il rovesciamento di Gheddafi e poi la sua’uccisione extragiudiziale.
Ben lungi dall’essere una zona pacificata, ora Bengasi, capitale della Cirenaica, è teatro di continui attentati e di episodi di violenza che hanno nel mirino ufficiali delle forze di sicurezza, membri della magistratura o ex funzionari del rais. Dopo la guerra hanno preso forma e corpo in maniera strutturata centinaia di gruppi armati organizzati con scorte di armi sofisticate. Gli analisti sono concordi nel ritenere che la rete delle milizie è in grado di tenere in scacco il Paese e le sue ricchezze petrolifere, nonché essere il santuario di altri fronti di jihadisti, a cominciare dalla Siria.
L’insicurezza in Libia regna sovrana. «Si sono formati almeno 500 gruppi armati che hanno di fronte un esercito fragile – dice Angelo Del Boca, che ha appena terminato una nuova edizione della sua biografia di Gheddafi – e vorrei mettere in guardia chi pensa che sia facile disarmarle».
Del Boca si riferisce alla possibilità che l’Italia partecipi al piano di riorganizzazione e training dell’esercito libico che dovrebbe andare di pari passo con un altro piano per disarmare le milizie. Secondo un rapporto dell’United Press International (Upi), questi 500 gruppi sono in competizione tra loro e rispondono ad agende diverse. La Libya’s Warrior Affairs Commission stima a circa 250mila i componenti delle milizie che hanno un rapporto diretto di fedeltà a signori della guerra, capi tribù o gruppi salafiti, una sigla che non esaurisce per altro il vasto panorama dell’estremismo islamico nordafricano in cui si è infiltrata anche la matrice qaedista. Del Boca invita ad andarci molto cauti. Come dimostra l’anniversario di ieri festeggiato a suon di bombe.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento