Il presidente afghano Ashraf Ghani invoca la pace. I Talebani colpiscono duro. Nel tardo pomeriggio di martedì un gruppo di militanti ha assaltato l’aeroporto di Kandahar, uno dei più protetti del paese. L’attacco si è concluso solo ieri, dopo quasi 20 ore. Secondo il ministro della Difesa afghano sarebbero 37 le vittime, tra cui molti civili e alcuni membri delle forze di sicurezza, e 35 i feriti. Nove invece i Talebani rimasti uccisi. Ma altre fonti parlano di un numero minore di vittime.

L’obiettivo è ambizioso: l’aeroporto di Kandahar è il secondo del paese, da qui sono passati (e in parte passano ancora) molti dei mezzi militari degli americani e della Nato. Insieme a quella di Bagram, 40 chilometri a nord di Kabul, la base di Kandahar è stata fondamentale nel corso di questi 14 anni di occupazione per le operazioni logistiche e militari, incluse quelle della Cia. I Talebani non sono riusciti a entrare nell’ampia zona dell’aeroporto destinata agli stranieri, ma l’assalto è comunque un successo militare e di propaganda. Rivendicato con un video rivolto al presidente degli Usa Barack Obama, che per due volte ha deciso di prolungare la presenza dei soldati a stelle e strisce nel paese (ora 10.000 circa, 5.000 dalla fine del 2016).

Con l’attacco a Kandahar i seguaci di mullah Makhtar Mansur, l’uomo che dalla scorsa estate ha sostituito il defunto mullah Omar, dimostrano di saper colpire al momento giusto. Martedì è cominciata infatti a Islamabad, in Pakistan, un’importante conferenza sulla sicurezza e la cooperazione regionale, Heart of Asia, parte del cosiddetto processo di Istanbul. Un appuntamento annuale, cruciale per il presidente Ghani, che mira a mobilitare risorse e sostegno politico per convincere gli studenti coranici a sedersi al tavolo negoziale. All’inizio del 2015 si erano registrati alcuni segnali promettenti, che sembravano dimostrare l’inclinazione dei Talebani al dialogo. E il convincimento dei più importanti attori regionali, dal Pakistan alla Cina, di puntare al negoziato. La notizia della morte di mullah Omar ha però paralizzato i primi, incerti passi verso il processo di pace. Da Islamabad, ieri il ministro degli Esteri afghano, Salahuddin Rabbani, ha comunque fatto sapere che Afghanistan, Cina, Pakistan e Stati Uniti intendono far ripartire il processo già dalla prossima settimana. Ma nel frattempo molte cose sono cambiate. Soprattutto all’interno del fronte talebano.

Il successo militare e mediatico di Kandahar nasconde infatti alcune fragilità. La nomina di mullah Mansur non è piaciuta ad alcuni talebani. Qualche pezzo grosso della leadership si è sentito escluso; qualcuno sostiene che Mansur sia una marionetta nelle mani dei servizi pachistani; qualcun altro si è apertamente dissociato, dando vita a nuovi gruppi, autonomi rispetto alla shura (consiglio) di Quetta, il cuore politico del movimento. Ed è di pochi giorni fa la notizia che mullah Mansur sarebbe rimasto ferito (qualcuno dice morto) dopo una disputa interna, a Quetta, in Pakistan.

I dissidi interni sono sfruttati dal Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, che dopo aver inaugurato la “provincia” dello Stato islamico nel Khorasan – un’area che dall’Iran arriva al sub-continente indiano – ha intensificato i tentativi di cooptare i Talebani disillusi. La partita per l’egemonia dei jihadisti è aperta in tutto l’Afghanistan, ma per ora è nella provincia di Nangarhar, al confine con il Pakistan, lì dove è più diffuso il salafismo, alieno ai Talebani (di scuola deobandi), che gli scontri sono stati più significativi, così come i successi degli uomini di al-Baghdadi. Per il Califfo, la posta in gioca è fondamentale: strappare l’Afghanistan ai Talebani, che sotto la leadership del mullah Omar hanno intrattenuto relazioni burrascose ma prolungate con al-Qaeda, significa conquistare un luogo simbolico. La terra dove il jihad contemporaneo ha avuto inizio, negli anni Ottanta, con la resistenza contro l’occupazione sovietica. Per ora sembra difficile che l’Isis possa riuscirci, ma al Califfo non mancano risorse e determinazione. La partita tra Stato islamico e Talebani è appena cominciata. Per qualcuno, è un’occasione: per il generale Campbell, a capo delle forze Usa e Nato in Afghanistan, la presenza dell’Isis giustifica il prolungamento della missione americana nel paese.