Ieri mattina a Tunisi la cattedrale di Bourguiba Boulevard, il luogo simbolo della rivoluzione popolare esplosa a dicembre del 2010, era piena. Erano tantissimi i tunisini riunitisi per commemorare le 23 vittime dell’attacco al Museo del Bardo. Candele accese ed un ingente dispiegamento di polizia lungo tutta la centralissima via di Tunisi.

Le autorità tunisine vogliono far sentire la loro presenza alla popolazione, ai partner internazionali, ai turisti impauriti. E premono sull’acceleratore delle indagini: ieri sono state arrestate in una vasta operazione anti-terrorismo oltre 20 persone. Dieci di loro sono accusate di diretto coinvolgimento nell’operazione, ha fatto sapere il portavoce del Ministero degli Interni, Mohammed Ali Aroui: «Si tratta di una campagna di vasta scala contro gli estremisti», ha aggiunto spiegando che il governo ha ordinato il dispiegamento dell’esercito in tutte le principali città del paese.

Ma a preoccupare le autorità tunisine, impegnate in un difficoltoso e tortuoso cammino verso la pacificazione nazionale, sono i movimenti compiuti dai jihadisti tunisini. La Tunisia è il primo paese esportatore di miliziani verso Iraq e Siria, verso il califfato di al-Baghdadi: tremila, stimano i servizi segreti internazionali. Come spiegato due giorni fa dal ministro della Sicurezza Chelly, i due attentatori erano stati addestrati in Libia a dicembre, per poi tornare a casa e creare cellule jiahdiste pronte all’azione.

Una dichiarazione che appare a certi attori globali la migliore delle giustificazioni per un intervento in Libia, su cui punta da tempo anche il governo italiano. Ieri a Ciampino le salme dei quattro italiani uccisi nel Museo del Bardo sono state accolte dal premier Renzi che già prima dell’attacco di mercoledì a Tunisi discuteva di minaccia dell’Isis con il presidente egiziano al-Sisi, novello faraone e nuovo alleato di ferro dell’Occidente nella crociata anti-islamista.

La Tunisia, intanto, tenta di rialzare la testa consapevole dell’enorme danno provocato ad una delle principali entrate economiche per la popolazione: il turismo. Pochi giorni fa il governo aveva pubblicato il piano di riforme per il 2016-2020, con l’obiettivo di realizzare una crescita del 7% l’anno, forte del sostegno della comunità internazionale che continua a dipingere Tunisi come il modello di successo delle primavere arabe, dimenticando che molti degli elementi che avevano spinto il popolo tunisino a far cadere il dittatore Ben Alì sono tuttora presenti: una disoccupazione giovanile oltre il 30%, una disuguaglianza strutturale tra nord e sud, corruzione diffusa ad ogni livello del potere statale.

Il turismo pareva a tutti il migliore degli strumenti per risalire la china. Dopo la rivoluzione, l’apporto del settore al Pil tunisino era sceso al 7%, ma stava gradualmente risalendo. La speranza dei tunisini era quella di poter finalmente vincere le storiche piaghe dell’economia interna. Una speranza che potrebbe essere morta al Bardo.