L’attacco di ieri contro Manbij lanciato da una cellula dello Stato Islamico conferma l’ovvio: Daesh non è morto. Appena tre giorni fa le Forze democratiche siriane (Sdf) celebravano la liberazione di Barghouz, ultima enclave territoriale dell’Isis. Con la ripresa della comunità al confine con l’Iraq, le Sdf completavano un’offensiva lunga anni che ha liberato milioni di siriani dal giogo islamista.

Ma, come le Sdf sottolineavano sabato, Deash c’è ancora. Sotto forma di capacità di reclutamento e di presa ideologica e sotto forma di cellule sparse sui territori siriano e iracheno. Ieri hanno colpito Manbij: un commando ha aperto il fuoco contro un checkpoint, nella notte tra lunedì e ieri, uccidendo sette combattenti.

L’attacco arriva a meno di 20 giorni dal precedente (otto vittime in un attacco suicida) e a due mesi da uno dei più sanguinosi: un kamikaze saltato in aria nell’affollato ristorante Qeser al Umaraa all’ora di pranzo, 19 morti. «Va fatto molto lavoro per rimuovere questa minaccia – ha commentato Shervan Derwish, portavoce del Manbij Military Council – Daesh è ben organizzato e ha la capacità di portare a termine questo tipo di attacchi». Secondo i calcoli statunitensi, tra Siria e Iraq sarebbero ancora attivi tra i 15mila e i 20mila miliziani islamisti.

Una minaccia sotto traccia che fa il paio con l’altro serio problema che Rojava e le Sdf si trovano ad affrontare, da sole: oltre 5mila prigionieri dell’Isis (a cui se ne sono aggiunti altre migliaia dopo la liberazione di Baghouz), molti dei quali foreign fighters che i rispettivi paesi di cittadinanza non prendono indietro. E che con sé portano oltre decine di migliaia di familiari, donne e bambini.

Ieri l’amministrazione del nord della Siria ha fatto appello alla comunità internazionale perché crei un tribunale speciale a cui affidare i processi agli islamisti secondo gli standard previsti dal diritto internazionale. E che poi rimpatri i condannati.