Lo spettro evocato dalle violenze e dagli scontri tra opposte fazioni dell’esercito scoppiati ormai cinque giorni fa in Sud Sudan è quello del rischio di una guerra civile.

«I nostri soldati hanno perso il controllo di Bor, conquistata dalle forze di Riek Machar», ha annunciato ieri un portavoce dell’esercito di Juba. La città, capoluogo dello stato del Jonglei, riporta alla memoria il massacro del 1991. Allora i soldati di etnia Nuer, cui appartiene l’ex vicepresidente Machar, deposto mesi fa, uccisero centinaia di Dinka, gruppo da cui viene il capo di Stato sudsudanese, Salva Kiir, oggi coinvolto in uno scontro politico, e ormai armato, con il suo vecchio numero due.

Ieri è stata attaccata una base Onu nello Stato del Jonglei, ci sarebbero vittime. Dall’inizio delle violenze nella capitale Juba i morti sono stati almeno 500. Ieri un comunicato del ministero degli Esteri cercava di rassicurare sul ritorno della normalità nella capitale dopo quello che il governo centrale continua a denunciare come uno sventato colpo di Stato orchestrato da Machar.

Il ministero degli Esteri ha cercato di allontanare il fantasma delle violenze etniche. «Si è trattato delle ambizioni politiche di Riek Machar e dei suoi complici. È sufficiente dire che di 11 politici agli arresti soltanto due sono Nuer», ha sottolineato il titolare della diplomazia Barnaba Marial Benjamin.

Testimonianze raccolte da Human Rights Watch riferiscono tuttavia di soldati intenti a chiedere la nazionalità ai fermati, prima di decidere se ucciderli o rilasciarli. «Siamo molto preoccupati per gli attacchi su base etnica condotti da entrambe le parti», ha scritto in un nota Daniel Bekele, direttore per l’Africa dell’organizzazione per i diritti umani.

Di suo, dal luogo in cui è latitante, l’ex vicepresidente accusa Kiir di incitare alle divisioni, dichiarandolo un leader non più legittimo. A complicare ulteriormente il quadro è da registrare l’ammutinamento del generale Peter Gadet Yak e dei soldati a lui fedeli. Come Machar anche Gadet è un Nuer. Non è chiaro se le truppe leali all’ex vicepresidente e quelle generale stiano collaborando. Ma come ricordano sia la Bbc sia Al Jazeera non è escluso che ciò possa accadere.

Come sottolinea un commento dell’International Crisis Group, quella che è stata a lungo una crisi interna al partito di governo, il Movimento di liberazione popolare del Sudan (Splm), si è estesa a un esercito spaccato in due da problemi interni, comprese le divisioni etniche. «La confusione tra istituzioni, figure politiche di primo piano, comunità etniche – oltre alla diffusione su larga scala di armi – rendono la situazione particolarmente instabile», scrive il centro studi. La crisi è il frutto di lotte intestine al partito, che covano da mesi e che vedono l’ufficio politico del Splm spaccato sulle regole, tra chi è orientato a una maggiore democrazia e chi, come Kiir, vuole mantenere un controllo più stretto.

La situazione è riassunta dalle parole di un diplomatico citato da Al Jazeera. «Non si possono avere un presidente e un vicepresidente che non si parlano», ha spiegato nel descrivere i problemi che affliggono il Sud Sudan quando sono trascorsi appena due anni dall’indipendenza da Khartum, che si aggiungo alla carenza di infrastrutture e alla fragilità delle istituzioni. A Juba intanto è arrivata una delegazione dell’Unione Africana per cercare di mediare tra le parti.

Almeno 20mila sfollati hanno trovato riparo nei compound delle Nazioni Unite. Tra loro anche 200 dipendenti dell’industria petrolifera, in fuga dagli scontri scoppiati in due impianti, che hanno fatto 16 morti.