La black Tv è sempre stata più libera, avventurosa, irriverente e più sfrontatamente black del black cinema. Oggi paragonata ad altre sitcom costruite su piccoli microcosmi precisi – come Girls e Louie, le bella serie Fx Atlanta (in onda in Italia su Sky Atlantic) ha nel suo Dna anche molto dello spirito dissacrante, autoironico e della non linearità del mitico programma di sketch comici In Living Color. Come quella creazione dei fratelli Keenen e Damon Wyans (in onda su Fox tra il 1990 e il 1994) Atlanta, ideata dall’attore e rapper (dietro all’alias Childish Gambino) trentatreenne Donald Glover è un riff sulla realtà afroamericana di oggi, vista attraverso la vita di un gruppo di aspiranti rapper di Atlanta.

Non è casuale la scelta della capitale della Georgia – famoso teatro della guerra civile, la cui caduta in mano nordista segnò la svolta che avrebbe portato alla vittoria di Lincoln; sede di Cnn, della CocaCola, città vicino a cui Glover è nato cresciuto e un noto trampolino per molti giovani amanti dell’hip hop. Lontana dai fasti newyorkesi e dagli intrighi shakespeariani di Empire la scena musicale di Atlanta è immersa nell’aria dolce del sud e nella nuvola di marijuana che aleggia sui protagonisti, che foraggiano la loro arte tra il banco dei pegni, il portafoglio delle fidanzate e la fornitura di uno spacciatore mezzo messicano annidato in una roulotte nella foresta.

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Sitcom d’ambiente, personaggi, umori, pause tirate fino al surreale, scarti improvvisi, canzoni usate come controcampo, la creazione di Glover lavora su una gamma di tonalità che vanno dalla laboriosa gag su come estrarre la pipì dai pannolini di una neonata per evitare che l’analisi della tua urina riveli il joint della sera prima, al dibattito sulla coolness di Steve McQueen rispetto a quella di Whit Chamberlain, fino a sfiorare quasi la tragica, profonda, elegia di TeNehisi Coates. Autore di parecchi episodi della serie (altri sono firmati da suo fratello Stephen; mentre alla regia è spesso Hiro Murai, regista dei video musicali di Childish Gambino), Glover, è anche uno dei protagonisti, Earn, compagno inaffidabile e squattrinato di Van, con cui ha anche una bambina piccola, e manager improvvisato di suo cugino, Alfred, ovvero il rapper Paper Boi (BrianTyree Henry) diventato improvvisamente famoso quando la sua canzone (Paper Boi, ovvio) viene data in radio mentre la sua foto passa in tv dopo che lui e Earl vengono coinvolti in una sparatoria.

Gangsta rapper suo malgrado Paper Boi è una star riluttante, con un’espressione di calma esasperazione di fronte a tutto quello che succede, che Tyree Henry rende magnificamente. Quando un signore con la maschera di Batman si presenta alla sua porta e chiede di lui, per poi scappare via, urlando Ok! felice di aver scoperto dove vive il suo idolo, l’amico Darius (Lakeith Stanfield, il filosofo del gruppo, e quello più fatto dei tre) scuote la testa. «Sei troppo famoso» dice a Paper Boi, senza un filo d’ironia.

Al loro fianco, Earn è un po’ una sfinge (pare abbia frequentato Princeton, per un po’, ma nemmeno i suoi sanno cosa è successo), l’incarnazione di uno sguardo serafico che si sovrappone a quello del pubblico – anche quando deve passare ore nella sala d’attesa di una prigione piena di gente che a quel luogo pare abbia fatto l’abbonamento, quando sua madre lo sgrida perché mangia male dopo aver esaminato i suoi escrementi visto che si era dimenticato di tirare l’acqua, o quando invita a cena Van ma poi non ha i soldi per pagare i piatti costosi che ordina. «Il pesce e prezzo di mercato? Allora sei fottuto!», gli dice il barista.

L’umiliazione, il ridicolo, l’arresto ingiusto, la battuta razzista, il rapper bianco che crede di essere cool perché dice «negro», la versione black di Justin Bieber, la moglie e la mamma che ti fanno regolarmente il culo…l’universo maschile di Atlanta, contiene in sé già anche la parodia di sé stesso (Daddy, papà è il soprannome con cui Darius chiama la sua pistola).
Per questo la serie è così divertente, costruita com’è come un rito immersivo, per insiders, che rimane sempre sul filo dell’ermetico, ma a cui però ci è dato il privilegio di accedere.