«Mio padre fu arrestato per un crimine mai definito. Il nonno diceva che la sua colpa era stata quella di dire che con quel golpe l’Afghanistan aveva perso la sua prima lettera ed era diventato Fghanistan. Che nella nostra lingua significa: terra di urla e di lamento».

Una terra dalla quale Atiq Rahimi è scappato durante l’invasione sovietica (1979-1989) per trovare rifugio prima in Pakistan e infine in Francia dove ha ottenuto asilo politico e dove attualmente vive. Cineasta, fotografo e scrittore afghano, Rahimi ha sperimentato sulla propria pelle l’esilio dal paese natale, come molti artisti fuggiti dalla patria a causa delle guerre. Le sue opere, dense di evocazioni dell’Afghanistan, non sono mai state così nostalgiche come in Grammatica di un esilio (Bottega Errante Edizioni, pp. 176, euro 13), ultima fatica letteraria dell’autore pubblicata in Italia.

Atiq Rahimi, che sarà ospite al prossimo Festival Dedica di Pordenone dal 10 al 17 marzo, porterà non solo il suo racconto dell’esilio, ma le immagini del suo Paese catturate con gli occhi della memoria. La mostra fotografica L’immagine del ritorno, che sarà presentata a Pordenone durante il festival, è una raccolta di scatti realizzati con una vecchia macchina fotografica (kamra-e-faoree), di quelle che usavano e in parte usano ancora in Afghanistan alcuni fotografi di strada. Il risultato è un mosaico di reminiscenze tenute insieme dal legame indissolubile tra condizione esistenziale dell’esilio e storia nazionale.

Le foto che compongono la mostra L’immagine del ritorno costituiscono una sorta di narrazione visuale del suo paese. Cosa vuole raccontare dell’Afghanistan?
Nel 2002 alcuni giornali francesi mi chiesero un reportage fotografico sulla mia terra d’origine. Sarei dovuto tornare in Afghanistan per girare alcune scene di un mio film, così decisi di accettare la sfida. Sono partito per scattare le foto dell’Afghanistan così come mi avevano richiesto, ma non ne ero soddisfatto. Quelle istantanee da Kabul non mi trasmettevano nulla. Decisi che avrei scattato delle foto che ritraessero il sogno, o per meglio dire l’incubo, del Paese come io lo vedevo. La macchina fotografica è stata una sorta di estensione del mio occhio: ha catturato tutto ciò che a me sembrava terribile e disastroso.

Cosa ha provato al suo rientro a Kabul dopo gli anni dell’esilio francese?
Il poco tempo che ho trascorso lì è stato doloroso, straziante. Non riconoscevo la mia città natale (Rahimi è nato a Kabul nel 1962, ndr). Mancavo da 18 anni ma mi sembravano 36. Ho trovato un paese devastato, lacerato dalla guerra. L’incubo di cui parlavo poco prima.

È di pochi giorni fa la notizia che il presidente afghano Ashraf Ghani ha proposto ai talebani una tregua. Cosa pensa di questa mossa?
È ovvio che voglia far pace con suoi nemici, ma questa tregua rivela molti aspetti sottovalutati: per prima cosa, la debolezza dello Stato contro i talebani che impongono costantemente le loro leggi del terrore.
Secondo, che la negoziazione implica l’ipotesi di integrarli in qualche modo nel governo. Io non credo che accetteranno, comunque: questo esercito di tenebre ha più da guadagnare agendo in clandestinità che nella conquista del potere legittimo.

L’Afghanistan è un Paese ricco di storia e tradizione ma viene ricordato solo in occasione di eventi cruenti: bombe, attentati ecc. Cosa ne pensa?
Io dico che l’Afghanistan è in guerra da quando esistono i mezzi d’informazione: una grossa parte di responsabilità è loro. I giornali, internet e la tv hanno bisogno del dramma per parlare di qualcosa. I giornalisti che vanno a Kabul, a Herat inseguono le immagini del conflitto, non si soffermano a cercare altro ed è così che la cultura di un paese al di fuori di esso si impoverisce. La ricerca di elementi che accrescano i cliché precostituiti dalle società occidentali è costante. In questo modo, la percezione di un paese all’estero è sempre fuorviata. Pensi a cosa è l’Europa vista dal Medio Oriente: ricchi parvenu, traffico di droga e politica.

Il suo libro «Pietra di pazienza» (Einaudi, 2009) nasce in seguito a un tragico episodio. Ce lo vuole raccontare?
Nel 2005 venni invitato a un incontro letterario a Herat, città rinomata per i suoi intellettuali illuminati e per il suo ricco background culturale. Una settimana prima della partenza ricevetti una telefonata in cui mi comunicavano che l’incontro era stato annullato. Una delle coordinatrici, una giovane poetessa afghana, Nadja Anjouman, era stata uccisa dal marito. Lei era una delle organizzatrici più attive del festival. L’episodio mi aveva molto colpito, così decisi di andare a trovare la sua famiglia e suo marito che aveva tentato il suicidio in carcere iniettandosi della benzina nelle vene.
Mi vennero raccontate storie terribili, raccapriccianti, sulla sorte di molte donne in quella cittadina cosiddetta illuminata. In quel momento avrei voluto avvicinarmi al letto del marito omicida per parlargli e sfogare su di lui la mia rabbia per ciò che aveva fatto. Ma non fu possibile incontrarlo, era in coma. Quella visita, però, mi diede la spinta emotiva per scrivere una storia «scandalosa», quella di una donna che vuole vendicarsi.
Ne è venuto fuori un racconto fiume lungo 99 giorni fatto di preghiere e poi confessioni. L’ho scritto in francese. Con una naturalezza che pensavo di non avere (i primi romanzi erano stati scritti in persiano, ndr).

Il suo ultimo libro «Grammatica di un esilio» mette a nudo l’esperienza autobiografica della separazione dalla propria patria. Cosa è stato per lei questo passaggio obbligato?
È tutt’ora una ferita aperta, un dolore intimo. Una condizione che si confronta ogni giorno con la cultura del paese che ti ospita. E non guarisce. La scrittura, la fotografia e il cinema sono stati una sorta di terapia, ma attraverso queste forme d’arte ho sempre cercato il mio paese.

È per questa ragione che i capitoli del suo volume sono scanditi da disegni calligrafici dell’alfabeto persiano?
Anche. Ho scritto il mio primo libro, Terra e Cenere (Einaudi, 2002), interamente in persiano. In quest’ultimo ho utilizzato le immagini anche per mischiare quello che siamo con quello che eravamo: la civiltà della parola e quella del disegno e della scrittura.