Piacerebbe forse illudersi del contrario, ma la tradizione antidemocratica è a lungo e solidamente prevalsa nella riflessione politica in Occidente. Di fatto, per secoli ha dominato nel pensiero politico il modello di Roma antica, repubblicana e aristocratica oppure monarchica e autocratica. Le vicende della Grecia erano al tempo note soprattutto per mediazione di testi latini, e l’interesse andava in prevalenza per l’equità e stabilità di Sparta più che il disordine di Atene: comprensibilmente, l’idea di un governo del popolo è stata per lungo tempo sgradita. Ma la stagione politica democratica è stata poi ripensata, e infine rivalutata, nella teoria moderna dei modelli di governo: per comprendere in quali modi ciò sia avvenuto, serve ripercorrere un arco cronologico assai più lungo e un’area culturale assai vasta.
A questo tende il ricco Companion to the Reception of Athenian Democracy From the Late Middle Ages to the Contemporary Era (curato da Dino Piovan e Giovanni Giorgini, Brill, pp. 536, € 180,00). Introdotta da una sintesi chiarificatrice sulla democrazia antica, l’analisi muove dal pensiero politico medievale: soprattutto la ricomparsa di Aristotele aprì una nuova fase, in cui la Politica insegnò a ragionare di governo democratico meglio di quanto facevano le narrazioni storiche allora disponibili. E certo era il dibattito politico coevo, non un interesse storico a indirizzare la riflessione, quale si rintraccia anche in Dante o Petrarca. Al principio poi dell’età moderna, quando era Roma ancora a costituire il modello di riferimento (e lo si vede bene in Machiavelli), il panorama mutò significativamente. Tra i fattori nuovi, ci fu anche la stampa: ma non sempre questo portò favore verso il governo del popolo. Hobbes, per esempio, tradusse Tucidide per mettere in evidenza le malefatte dei demagoghi e il rischio rappresentato dalle assemblee troppo potenti: pensava quindi alla propria patria, che anche altri intellettuali volevano preservare dai convergenti rischi indotti dalla «turbolenza democratica» e pure dal repubblicanesimo.
In Europa invece, dal tempo dell’assolutismo monarchico alla rivoluzione e fino all’età nostra, la ricezione del modello democratico greco ebbe esiti differenziati, in Francia, nel Regno Unito, in Italia: nel volume, saggi speciali ripercorrono dunque i dibattiti ‘nazionali’, legati all’evoluzione politica (o anche alla querelle des anciens), e non alla prospettiva storica. Si incontrano così giudizi peculiari, come quello di Rousseau. A suo parere, Sparta era una «Repubblica di semi-dei, più che di uomini», famosa tanto per scarsa cultura quanto per saggezza delle leggi, mentre Atene non era già una democrazia, quanto «una aristocrazia molto tirannica, retta da sofisti e oratori». Istruttivo giudizio, che aiuta a capire, pochi anni più tardi, il preoccupante radicalismo dei giacobini, che pure si richiamavano ai modelli antichi. Anche una giovane repubblica federale sorta oltre Atlantico guardò, com’è noto, al pensiero politico classico, e ne derivò un sistema «misto», che pareggiava la democrazia con un solido potere personale centrale.
Fu però merito della History of Greece di George Grote (uscita nel 1846-’56) come delle riflessioni di Benjamin Constant e di Numa-Denis Fustel de Coulanges, se alla democrazia ateniese si guardò infine in modo differente, che fu base dell’odierno prevalente giudizio. La visione cambiò quando ci si volse con più attenzione alle istituzioni, invece che ai protagonisti: Clistene occupa da allora il posto di «fondatore», prima attribuito variamente a legislatori, da Solone o Pericle o Focione. Sempre più, inoltre, il tema della democrazia fu affrontato con gli strumenti della filologia e della storia: gli esiti furono nuovi, ma restavano sensibili toni moraleggianti nel giudizio sugli antichi. In Germania, alle ricorrenti tesi antidemocratiche s’affiancò il filellenismo classicistico, destinato a declinare dopo l’unificazione. In Italia, la stagione di maggiore interesse fu il ventennio tra le due guerre: in quel tempo, il dibattito storiografico sulla democrazia degli antichi assunse un carattere politico attualissimo, nelle riflessioni di Croce, Momigliano e altri. Il secondo dopoguerra ebbe un’agenda differente, dopo l’età delle tirannidi totalitarie: la discussione sulla democrazia antica proseguì entro l’emarginata casta degli specialisti, ma il vero dibattito si svolge, da allora, nelle scienze politiche. Importante fu il ripensamento in ambito marxista, oggi ancora attivo: ne è derivata la messa a fuoco, pure in Italia, dei possibili caratteri elitisti nella democrazia antica.

Oggetto di studi particolari è pure, nel libro, il contributo di studiosi contemporanei (Strauss, Arendt, Foucault), cui spetta l’analisi di temi diversi, come la partecipazione alle istituzioni anche da parte di individui non tecnicamente specializzati, oppure l’accesso alla parola pubblica come pilastro del «discorso» democratico. Non pare dubbio che sia l’Atene di Tucidide, e non più la kallipolis platonica, a essersi imposta come paradigma della modernità: questo almeno, fino alla sfida della global history, ma anche del convergente moto di dissoluzione, indotto dal populismo e dal neoliberismo. Da questo punto di vista, si può notare che il dibattito sulla democrazia ha bisogno di andare oltre la reazione, anche nobile e ideale, ai rischi autoritari e totalitari. Per altro, l’ideologica rappresentazione della democrazia moderna come erede, più o meno ideale, dell’antica ha ceduto il passo, si direbbe, a sguardi più tecnici: ci si volge a studiare, per esempio, la «selezione casuale» e il sorteggio, e si riflette sulla «democrazia epistemica». Forse nel presente, più che i principi, importa capire l’efficacia concreta dei processi decisionali, anche a partire dalle istituzioni impostate da Clistene (e si superano così le riserve già espresse nella tradizione antica).
I distretti dell’Attica sono dunque esaminati secondo gli schemi del social networking, e viene misurata la trasmissione di esperienza politica tra i cittadini. Ecco un punto di vista molto differente rispetto alla corrosiva ironia di Socrate verso la politica dei «dilettanti». Che vi sia in questo un residuo (inconsapevole) di idealizzazione classicistica? Può essere. La denuncia degli «errori» presenti nella democrazia ateniese ha, come mostra questo volume, una storia lunga e non disinteressata.
Il libro, curato da un antichista e da uno studioso di politica, è inserito in una serie di Companions to (ancient) Philosophy. Ma è chiaro che il suo raggio è assai più ampio: la ricezione del modello democratico greco ha nel tempo intercettato, e ancora oggi trasversalmente tocca, molti ambiti diversi, dalla storia alla filosofia, dalla sociologia alla storia del pensiero politico. Nel volume, le differenti voci si compongono in un quadro coerente e stimolante. Esiste una differenza grande tra questa feconda prospettiva interdisciplinare e le asfittiche gabbie dei «raggruppamenti disciplinari» che strangolano la ricerca accademica. La quale, se non sarà liberata dalle sterili pastoie burocratiche, molto presto resterà ricca di carte (non meno sterili se rese digitali) e di pensieri non più pensati.