Alle ore 18:15 di martedì primo gennaio 1963 andava in onda sulla rete giapponese Fuji TV la prima puntata di Tetsuwan Atom, serie animata creata da Osamu Tezuka dal suo omonimo manga. Cinquantacinque anni sono passati da quel giorno, ma la data è talmente significativa che ancora oggi l’animazione seriale giapponese così come la conosciamo, stile, produzione e tutto ciò che si è sviluppato in questi cinque decenni, deve moltissimo alla serie televisiva in bianco e nero realizzata dalla Mushi Production.
L’IDEA del personaggio di Atom, conosciuto anche come Astro Boy in occidente, nasce su carta nel 1952 quando Tezuka, sviluppando una sua precedente idea, Atom taishi, serializza sulla rivista «Shonen Club» le vicende di un ragazzino meccanico con sentimenti umani. In un futuro prossimo in cui uomini e robot coesistono pacificamente, Atom è l’ultima creazione del dottor Tenma che lo costruisce con le sembianze del proprio figlio, scomparso in seguito ad un tragico incidente. Benché il manga sia decisamente rivolto ad un pubblico di giovani lettori, le problematiche e le questioni filosofiche che scaturiscono dalla figura del piccolo robot/androide sono più che mai adulte e avrebbero continuato ad occupare le pagine ed il piccolo e grande schermo anche nei decenni a venire.

 

 
Il successo del manga e l’imminente avvento delle Olimpiadi di Tokyo nel 1964, evento che comporta un esponenziale incremento delle vendite di televisori, offre a Tezuka ed alla sua Tezuka Osamu Production l’occasione per cimentarsi con il nuovo medium. La full animation così come concepita nei lungometraggi da Walt Disney al di la dell’oceano però è praticamenete impossibile da seguire per la piccola casa di produzione giapponese, la quantità di disegni necessaria per la realizzazione di una serie siffatta sarebbe impossibile da sostenere, ecco che allora nel 1957 si prova con immagini fisse corredate da narrazione, e due anni dopo con una non riuscitissima trasposizione in telefilm dal vero.
Tezuka, che intanto con altri artisti del settore fonda la Mushi Production, non si arrende e decide di dare anima e corpo alla realizzazione della serie sul suo amato Atom, in parte ispirandosi alla limited animation, risparmiando cioè sui disegni e riusando gli stessi nel corso delle puntate sul modello americano delle serie di Hanna & Barbera ad esempio. La sede della Mushi Production negli ultimi mesi del 1962 diventa la casa per molti animatori, «costretti» insieme a Tezuka stesso a lavorare senza sosta e a dormire un paio di ore a notte, per riuscire a portare a termine la serie animata da mandare in onda il primo gennaio.

 

 
Impegnato anche nella stesura di manga, il lavoro che gli permette per ora di sostenersi economicamente, Tezuka decide assieme ai collaboratori, sceneggiatore è Yoshiyuki Tomino che più di un decennio dopo avrebbe creato Gundam, di ridurre ancora di più il numero di disegni e di concentrarsi di più sullo sviluppo della storia e quello dei personaggi più che sull’animazione vera e propria. L’approccio rivoluzionario della serie fa breccia negli spettatori, Tetsuwan Atom non è la prima serie animata giapponese, il primato va a Otogi Manga Calendar del 1961, ma la narrazione di un cartone animato non è mai stata così avvincente e piena di colpi di scena tragici e drammatici, l’anime è un successo e prosegue la sua programmazione settimanale per ben quattro stagioni fino al 1966.

 

 
Il resto è storia, Atom sbarca in America nel settembre del 1963 dove diventa la prima serie giapponese ad essere trasmessa, fra mille difficoltà, aprendo le porte di fatto ai cartoni animati nipponici. Nel 1964 è la volta del lungometraggio diretto da Rintaro e successivamente nel 1980 e nel 2003 arriveranno altre due serie, senza contare in anni più recenti videogiochi e riedizioni del manga. Non ultimo il prequel della storia, Atom: The Beginning, scritto da Tetsuro Kasahara in collaborazione con il figlio di Tezuka, Makoto, portato in Italia dallo scorso novembre grazie alla casa editrice J-Pop.

 

 
L’avvento di Tetsuwan Atom sulle televisioni giapponesi è quindi da considerare il vero e proprio punto di partenza per l’animazione giapponese, non solo, come si diceva, per il maggior investimento emotivo nella storia e nei suoi sviluppi, rendendo i personaggi non delle semplici macchiette o stereotipi come succedeva con quelli di Hanna & Barbera, ma anche per l’uso di tecniche di regia e di musiche più sofisticate, quasi sperimentali, il tutto per compensare alla poca fluidità dell’animazione. Non ultimo, la serie è diventata purtroppo anche lo standard per le condizioni di lavoro nel mondo dell’animazione, al di là della passione riversata verso i disegni e le storie create, ancora oggi come più di cinque decenni fa, i ritmi lavorativi degli animatori e di tutto lo staff impegnato nella realizzazione di una serie sono semplicemente insostenibili.