Non speculate più sulla Richard Ginori. L’avvertimento arriva dalla magistratura, sotto forma di una indagine preliminare su una possibile turbativa dell’asta, non ancora conclusa, per il passaggio alla Gucci della storica azienda di ceramiche e porcellane di qualità. La notizia degli accertamenti avviati dalla procura di Firenze non è un fulmine a ciel sereno, viste le pagine oscure che hanno segnato l’esistenza della Ginori negli anni che hanno preceduto il suo fallimento. Per certo non si ritorce ma al contrario sembra aiutare il progetto di Gucci di aprire una nuova stagione per la fabbrica di Sesto Fiorentino. Un progetto sul quale, casomai, le uniche motivate perplessità sono quelle dei 303 lavoratori, su un piano industriale che non prevede più di 230 riassunzioni.
Non ci sono indagati, ma il retroscena degli accertamenti della procura abbraccia le ultime convulse stagioni della Richard Ginori. Il cui pacchetto azionario era peraltro passato in tempi più remoti dalle mani di personaggi come Michele Sindona e poi Salvatore Ligresti, che per primo aveva guardato con interesse a un possibile sfruttamento immobiliare della centralissima area della città di Sesto Fiorentino dove sorge lo stabilimento Ginori. Negli anni duemila siamo passati invece dalla Pagnossin dello scomparso Carlo Rinaldini alla Starfin del finanziere Roberto Villa, che ha messo in liquidazione Ginori nel maggio 2012, poi ha chiesto senza successo il concordato e infine l’ha trascinata al fallimento decretato lo scorso gennaio, con un passivo di 80 milioni a fronte di un attivo di 50.
Ora Villa è indagato per bancarotta fraudolenta. Ma agli investigatori non è sfuggito il tentativo di rientrare in gioco, prima che il Tribunale di Firenze decidesse per il fallimento della Ginori, attraverso la cordata rappresentata dalla multinazionale statunitense Lenox e dalla azienda italo-romena Apulum, di cui lo stesso Villa controlla un terzo del capitale attraverso una società maltese. Di qui, con tutta probabilità, l’attenzione dei magistrati. Perché la procedura d’asta, che ha visto Gucci come unico offerente (13 milioni), sia salvaguardata da possibile turbative dell’ultimo minuto.
La chiusura della gara con l’aggiudicazione definitiva di Richard Ginori è fissata per il 25 maggio prossimo. Condizione necessaria è il via libera dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali. Su questo fronte si sta giocando un’altra partita, stavolta del tutto trasparente. In discussione un piano industriale che assicura investimenti (10-15 milioni) e garanzie per conservare totalmente il made in Italy. Ma non affronta il nodo dei terreni – venduti anni fa – dove sorge lo stabilimento, come rileva Bernardo Marasco della Filctem Cgil. Inoltre continua a non prevedere più di 230 addetti su 303. Quanto ai 73 che resterebbero fuori da Ginori, Gucci calcola che per una ventina possa esserci un prepensionamento, e per altri 35 offre la prospettiva di una diversa occupazione. Ai restanti si impegna a fornire un servizio di outplacement (un’agenzia che trovi loro un impiego), e incentivi diretti a chi intende mettersi in proprio.
I lavoratori e i loro sindacati, questa volta compatti, al momento restano freddi. E hanno firmato un documento comune in cui hanno registrato il loro dissenso. A far ritrovare l’unità fra i confederali e i Cobas è stata l’impossibilità di applicare l’articolo 2112 del codice civile, che avrebbe permesso il passaggio di tutti i lavoratori dalla vecchia alla nuova Richard Ginori. L’esclusione di questo automatismo, non inserito nel bando d’asta, impedisce l’attivazione degli ammortizzatori sociali per chi sarebbe destinato a non rientrare in fabbrica. «Così diventa impossibile per i sindacati svolgere il loro ruolo di fronte ad una soluzione preconfezionata – osserva Giovanni Nencini dei Cobas – anche se le aperture di Gucci appaiono interessanti, seppur da verificare e specificare».