L’Inps ha aperto ieri i termini delle domande per l’assegno unico per i figli dei lavoratori autonomi e dei disoccupati e per il bonus «Iscro» (indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa) per le partite Iva povere con Isee non superiore a 8.350 euro che hanno perso il fatturato a causa della crisi pandemica. A differenza del cosiddetto e malconcpeito «reddito di cittadinanza», oggetto di attacchi classisti di ogni tipo, ieri queste misure, e in particolare l’assegno unico, sono state di nuovo celebrate dalle forze politiche della maggioranza Frankenstein che regge il governo Draghi. Cinque Stelle, Pd o Italia Viva le hanno presentate come misure di Welfare »universale» a sostegno delle famiglie, dei lavoratori e delle donne. In realtà sono altre due pezze a colori che si aggiungono a quel mantello di Arlecchino che è il Welfare all’italiana.

Per ragioni diverse, anche a causa delle condizioni fiscali e patrimoniali con le quali sono state concepite rischiano di penalizzare gli aventi diritto o escludere altri anche per pochi centesimi. Nel caso dell’Iscro si escludono le partite Iva che, pur senza commesse e con notevoli perdite di reddito, non sono povere a sufficienza. Per di più, sia l’assegno, sia l’Iscro, sono misure transitorie. L’assegno è stato presentato come una «norma-ponte» fino a dicembre e confluirà in una misura per tutte le famiglie prevista dal 2022. L’Iscro dovrebbe essere una parziale anticipazione della riforma degli »ammortizzatori sociali», pluriannunciata dal governo, che arriverà nei prossimi mesi e, tra l’altro, legherà il sussidio tra i 250 euro e gli 800 euro all’obbligo della formazione e alle «politiche attive del lavoro», nozioni in questo momento alquanto vaghe e tutte da ripensare nel caso delle partite Iva. Il rischio è affastellare provvedimenti spesso dissonanti e parziali. Un classico nella storia dello Stato sociale in Italia.
La misura principale, quella dell’assegno, è un’altra misura contro la povertà, compatibile con il «reddito di cittadinanza», e funzionerà in questo modo: gli importi sono legati al reddito Isee. Fino ai settemila euro l’importo sarà di 167,5 euro per un figlio, 335 euro per due figli, dal terzo 653 o 1.179 per cinque o più figli. Gli importi decrescono fino a 30 euro a figlio per Isee da 15 a 40 mila euro. Si arriva a 30 euro con un Isee tra i 40 e i 50 mila euro. L’assegno si estingue progressivamente per redditi superiori. Nelle prime ore sono già state presentate 15 mila domande.

In questo meccanismo basta guadagnare un centesimo in più rispetto alla soglia prefissata per perdere il sussidio o, nei casi dei redditi più alti, un importo pur modesto. Se così fosse allora la misura colpirebbe paradossalmente le donne per la quale è stata pensata come incentivo alla natalità. Di solito sono loro che percepiscono i secondi redditi, perlopiù precari. Per evitare di perdere l’assegno potrebbero rinunciare a lavorare subendo così un’altra penalizzazione.

Questi problemi inizieranno a interessare una platea potenziale di 1,8 milioni di famiglie di autonomi e disoccupati con 2,7 milioni di minori. Dall’anno prossimo, dopo una riforma delle detrazioni fiscali e degli assegni familiari esistenti, questi problemi potrebbero riguardare anche il lavoro dipendente, 28,1 milioni di persone, minori compresi. In questo caso si teme anche l’esclusione di chi ha un reddito Isee da 30 mila euro e oltre. Per ovviare a questi problemi è in corso una discussione parlamentare. Nei giorni scorsi sono stati presentati in commissione Lavoro del Senato una trentina di emendamenti. Il «ceto medio» a cui la politica italiana dice di pensare sarebbe penalizzato da una misura condizionata, e dunque selettiva, tutt’altro che «univers