«Se mi doveste chiedere di parlarvi di mia moglie, dovrei avvisarvi che so ben poco di lei. O almeno non quanto credevo di sapere… È morta sei mesi fa, quasi esatti. Una notte di mezza estate, a Oxford, sotto un grande e rigoglioso platano nel parco del Worcester College, andando verso il lago, con il ponte che porta al giardino del preside da qualche parte sulla destra e la luna nuova che sorge. È stato lì che ho trovato il suo corpo. È un punto buono come un altro per cominciare. O, immagino, per morire.» Così l’incipit di Ogni contatto lascia una traccia (Einaudi, efficace traduzione di Eva Kampmann, pp. 300 euro 22,00), intrigo accademico e romanzo d’esordio di Elanor Dymott, alla quale Oxford fornisce tanto il luogo immaginario del delitto quanto quello reale della composizione, legata, come racconta, a una «permanenza forzata dalla neve».

Dunque, Oxford fuori dalla finzione, Oxford nella finzione, Oxford della finzione, secondo la claustrofobica formula del college novel – alias varsity novel, Professor roman – ovvero romanzo accademico: genere già affermato negli anni sessanta, cui Leslie Fiedler guardava come a un «racconto di terrore dai toni comici», accostandolo al romanzo di guerra degli anni venti e a quello hollywoodiano dei trenta. Con una differenza significativa: anziché ritrarre le bipolarità di una singola e irripetibile Lost Generation, il college novel registrava i fallimenti seriali di generazioni perdute dietro al miraggio piccolo-borghese di una formazione umanistica capace di migliorare l’esistenza – o più esattamente la capacità di resistenza, civile e morale delle persone.
Senonché, attraverso decenni di onorata carriera e di tenuta commerciale – da The Masters di C.P. Snow, Jim il fortunato di Kingsley Amis e The History Man di Malcolm Bradbury a Il professore va al convegno e Scambi di David Lodge, fino ai più recenti Possessione di Antonia Byatt e Nemesi di Joyce C. Oates – l’interrogativo tipicamente liberal sul valore umanizzante della cultura, espresso dalla fiction accademica, ha cambiato pelle. Se ieri la forma era quella della satira, la sua veste odierna è diventata la tragedia. Basterebbe rifarsi all’acclamatissimo Dio di illusioni di Donna Tartt, nel quale la combinazione di privilegio sociale e illusione di impunità, vissuta da una cricca di studenti di un esclusivo college del Vermont, si rivela fatale. Segno che il vecchio paradigma umanistico si è ripreso tutte le sue promesse.

Il protagonista-autore del college novel è per convenzione un professore che mette a nudo ambivalenze e crudeltà dell’accademia, con toni che attraversano tutto lo spettro emotivo compreso tra il divertimento e il disgusto, e personaggi tagliati su persone reali più o meno riconoscibili. Fino a raggiungere i parossismi tragicomici di un romanzo come Murderat the M L A di D. J. H. Jones, dove la furia assassina temporaneamente addomesticata, che aleggia sulla convention più competitiva dell’accademia statunitense, si abbatte via via su tutte le star della critica mainstream, e dove alla soluzione del mistero si perviene soltanto dopo che una oscura studiosa untenured (non confermata) ha decodificato la logica dei delitti a uso di una polizia priva di chiavi di accesso all’iperuranio della teoria.
Ma in Ogni contatto lascia una traccia siamo oltre questo che è pur sempre un estremo atto di fede nell’accademia, perché qui, anziché mordere, il dissenso fa vittime concrete. Niente più parodia, niente satira, niente critica sociale, niente attacchi all’autoreferenzialità della cultura ufficiale. Solo morte e dolore: un dolore diffuso, indigeribile e apparentemente irrelato all’hortus conclusus di uno dei college più esclusivi del mondo anglosassone – la cui homepage recita: friendly eople, beautiful grounds, welcoming amosphere».
Rachel Carradine, giovane e brillante accademica e ex-studentessa del Worcester College, viene uccisa a mezzanotte di un fine settimana trascorso a Oxford in compagnia del marito, un avvocato in carriera schivo e solitario a lei profondamente devoto sin dai tempi dell’università. Dopo brevi e infruttuose indagini il caso viene sospeso e il marito, Alex Petersen, rispedito a Londra, dove precipita in abissi di angosciosa inerzia che ne mettono a rischio la professione.
Richiamato a Oxford da Harry Gardner, l’ex professore di letteratura inglese di Rachel convinto di possedere la chiave del delitto, Alex inizia un labirintico processo di revisione della figura della moglie, e di comprensione di se stesso, che lo condurrà non tanto all’identità del colpevole, quanto alla ricostruzione delle dinamiche dell’omicidio. Mentre l’asse Oxford-Londra rappresenta il centro gravitazionale dell’intreccio, il Giappone e gli Stati Uniti sono i punti di fuga. Una fuga impossibile, giacché la soluzione del mistero produce un tautologico ritorno al punto di partenza, e il dolore della perdita, vertiginoso e sottotraccia, si trasforma in tessuto cellulare, in incancellabile traccia mnestica.
Malgrado il debito trasparente con le scritture moderniste, è difficile avvertire nel personaggio di Alex la sensibilità impressionistica e destrutturante del narratore inaffidabile, come invece hanno sostenuto alcuni recensori all’uscita del libro. Non c’è dubbio che l’atrofia emotiva e gli autoinganni che ostruiscono la visione della voce narrante la assimilino a quella degli antieroi che popolano le pagine di Joyce, Virginia Woolf, Ford, Faulkner. Ma il suo racconto frammentato, sospeso, emendato, che ripercorre maniacalmente sequenze di fatti e congetture e fa la spola tra passato e presente, non traballa neppure nei momenti di maggior offuscamento, poiché, oltre al testimone principale del delitto, Dymott fa di Peter – non casualmente un uomo di legge – anche il depositario della morale della storia.
Accanto al Buon soldato di Ford Madox Ford, che racconta un’altra discesa agli inferi innescata dalla morte della moglie del protagonista, la matrice di questo romanzo di Dymott è la tecnica del racconto concentrico di Frankenstein, in cui un narratore esterno è chiamato a tradurre in buon senso il coagulo emotivo che unisce simbioticamente lo scienziato alla creatura generata dalle sue perverse manomissioni. Tanto più che nell’intrigo accademico di ultima generazione il potenziale di violenza repressa annidato nel campus si distribuisce equamente su tutti i personaggi.Il preside illiberale, preoccupato della cattiva stampa; il professore narcisista e permissivo, innamorato dei suoi studenti e pronto a giustificarli a oltranza; i genitori distanti e complici, perché ignoranti o troppo egoisti. Con elegante sprezzatura, e senza il minimo tocco di acrimonia, Dymott si diverte e disseppellire uno a uno tutti i topoi del genere: promiscuità sessuale, sballo, ritualità della vita nel college, plagio, manipolazione intellettuale, competitività, parassitismo emotivo. E li cuce insieme in una fitta e dotta trama di riferimenti letterari espliciti o nascosti – Romeo e Giulietta, La mia ultima duchessa, La ballata del vecchio marinaio –, volta a sussumere l’universo morale del romanzo nel suo orizzonte estetico. Non poco per un genere che ha la reputazione del blockbuster.
Con Ogni contatto lascia una traccia cambia il patto narrativo della crime story accademica. Nel terzo millennio, in un’epoca di post-ideologie e crisi del lavoro, anche accademico, la disumanizzazione del «piccolo mondo» del campus è un dato di fatto scontato, sul quale è inutile versare lacrime. La scommessa è piuttosto quella di una mostruosa (ancora Frankenstein) sua riumanizzazione. Se tutti, inclusa la vittima, sono colpevoli, nessuno è colpevole. Il delitto è spersonalizzato e diventa un dispositivo di default del sistema. In questo senso,Ogni contatto lascia una traccia non lascia tracce di sporco. Più che una tragedia dell’accademia, si direbbe la provvidenziale pietra tombale di un gennere, che attendeva di venire rinnovato.