Era agitato l’altro giorno Nadav Abramov, direttore del sito archeologico ebraico di Susya, mentre rispondeva alle domande di Arutz 7, l’emittente radiofonica del movimento dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata. «Qui non c’è alcun villaggio arabo di Khirbet Susiya – affermava -, è solo una hamula (famiglia allargata araba, ndr) che arrivò 20 anni fa dalla città di Yatta e si stabilì su terreni non edificabili, tra cui il sito archeologico. Ha costruito tende e baracche, tutto illegalmente». Quella di Abramov è la versione dei coloni israeliani della storia di un angolo polveroso e desolato di terra palestinese ora al centro dell’attenzione di molti nel mondo. Loro, i coloni, che si sono insediati in Cisgiordania, dopo il 1967, infrangendo le risoluzioni internazionali e la Convenzione di Ginevra, accusano i palestinesi di vivere illegamente nella loro terra.

 

È un paradosso che si trascina di decenni. In questo clima due giorni fa il governo Netanyahu, interrompendo una presunta non dichiarata moratoria sull’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, ha dato il via libera alla costruzione di altre 906 abitazioni e approvato il riconoscimento di alcuni avamposti colonici. Non basta però a chi pensa di rappresentare l’avanguardia della redenzione di tutta la biblica Terra di Israele. I coloni insediati a sud di Hebron perciò devono liberarsi della presenza anche dei 340 palestinesi di Khirbet Susiya. D’altronde anche la “legge civile” è dalla loro parte. I massimi giudici israeliani, quelli della Corte Suprema, hanno sentenziato la “legalità” dell’espulsione cancellando l’ordine che impediva all’Esercito e all’Amministrazione Civile (responsabile per l’Area C, il 60% del territorio cisgiordano) di distruggere il villaggio.

 

Negli ultimi giorni i coloni hanno lanciato un’offensiva politica e mediatica contro le pressioni di Stati Uniti e Unione europea che chiedono a Israele di non demolire Khirbet Susiya. Ma sono scatenati anche nei confronti degli attivisti della minuscola sinistra radicale israeliana che da mesi appoggiano la lotta degli abitanti di Susiya. Tzviki Bar-Hai, un ex capo del Consiglio regionale dei coloni di Har Hebron, sostiene di essere stato in quella zona, 40 anni fa, e «non c’erano palestinesi». «Ero lì nel 1976, e a parte la sinagoga che è stata costruita nel 1969, non c’era anima viva…Siamo stati in grado di avviare i scavi archeologici nel 1983 e anche allora non c’erano palestinesi in giro». Bar Hai naturalmente ha sorvolato sul fatto che i coloni in Cisgiordania ci sono andati solo dopo l’occupazione militare nel 1967. «In realtà quei palestinesi sono tutti di Yatta – ha protestato Bar-Hai – e sono sostenuti da attivisti di sinistra che vengono qui durante il fine settimana per dare credito alla versione dell’espulsione (degli abitanti del villagio)». Ed è sceso in campo anche il vice ministro della difesa Eli Ben Dahan (del partito Casa ebraica, il più vicino al movimento dei coloni) per respingere le (rare) voci che alla Knesset si sono levate contro l’ordine di demolizione. «Quel villaggio è una invenzione della sinistra, non è mai esistito», ha affermato perentorio. Dov Chenin, deputato ebreo della Lista araba unita, gli ha fatto notare che nel 1982 una funzionaria del ministero della giustizia, Plia Albek, scrisse che l’antica sinagoga di Susya è situata a Khirbet Susiya, dentro un villaggio arabo, su terre di proprietà di palestinesi.

 

I palestinesi di Khirbet Susiya vivono su un tratto di terra tra il sito archeologico israeliano e una colonia. E non hanno intenzione di arrendersi. Erano stati espulsi dalle loro case già nel 1986, per far posto allo scavo archeologico dopo la scoperta di una sinagoga del IV secolo. Sono stati sradicati di nuovo, nel 1990, e ancora nel 2001 dopo l’uccisione di un colono. Ma sono tornati sempre nella loro terra, tirando su tende e povere case di mattoni e lamiere. Adesso attendono l’esecuzione della sentenza di demolizione prevista entro il 3 agosto. Ma i bulldozer potrebbero muoversi prima. Qualche giorno fa i funzionari ell’Amministrazione civile hanno preso contatto con i residenti palestinesi esortandoli ad andare via subito. Hanno proposto un “trasferimento volontario” alla periferia di Yatta, a circa due km di distanza. Ma i palestinesi di Khirbet Susiya non cedono. E’ la loro terra, ripetono. Sanno che se andranno via i frutteti e pascoli passeranno subito ai coloni. Già ora, riferiscono le Nazioni Unite, non hanno accesso a circa 2/3 dei loro campi agricoli – 200 ettari – perchè vicini a un insediamento israeliano.