Ginevra Bompiani. «Che aspettiamo, raccolti nella piazza? Così comincia una poesia di Kostantinos Kavafis, Aspettando i barbari. Racconta di una città (Roma?) che aspetta, a cominciare dall’Imperatore che si leva per tempo, ai Senatori che siedono inerti, ai consoli e i pretori che vanno incontro agli sconosciuti portando gemme lucenti e mazze d’argento, perché ai barbari questa roba fa impressione. Aspettano i barbari, con paura, certo, ma anche con la speranza di risolvere ogni problema. Ma chi sono i barbari? Qualcuno oggi potrebbe credere che siano i migranti, altri che sia un partito o un governo nuovo, ma in verità, io credo, i barbari sono semplicemente il magico, vuoto e sconosciuto Cambiamento. Il grande mito di questi magri tempi.

Nessuno sa che cosa sia né da dove venga, che armi porti, che lingua parli, che cosa mangi, la sola cosa che sappiamo di lui è che non è quel che conosciamo. Un po’ il contrario di gnothi seautón: conosci te stesso. È invece un: non ti conoscere!, fidati di quel che non sai, mettiti nelle mani dell’occasione, rendi la tua vita occasionale. Non ti pare, Sarantis, che questa sia ormai la nostra vita, assetata di cambiamento?».

Sarantis Thanopulos: «La tua, Ginevra, è una prospettiva di lettura insolita dei versi di Kavafis, ma anche molto azzeccata. Rileggendo la poesia alla luce di quanto affermi, si vede la crisi di identità di una civiltà che cerca nella «soluzione» barbarica -su cui il poeta è attento a porre l’accento- un superamento di quello che è il suo vero terrore: le trasformazioni necessarie perché possa mantenersi viva. L’elemento barbarico è in realtà la compulsione a distruggere ciò che è duraturo in noi. Non ciò che resta immutabile, ma lo spazio fecondo della memoria in cui si sedimenta la nostra esperienza, aprendosi all’inconsueto, al futuro. Se non riconosciamo la nostra barbarie, è perché rifiutiamo di vedere l’inganno della costruzione illusoria, magica della realtà, svelare il vuoto da essa colmato. La ricerca affannosa del Cambiamento, che rigetta il legame tra continuità e discontinuità, produce immobilità psichica. Crea un’assenza interiore, perché la conoscenza di sé richiede un fuoriuscire da sé che è, al tempo stesso, permanenza, ci trasforma facendo persistere il nostro senso di identità».

Bompiani: «Hai ragione a dire che il frenetico desiderio di cambiamento si oppone a ogni trasformazione. Come chi si suicida per paura della morte, così il cambiamento ossessivo porta al giro impazzito del criceto sulla sua ruota: riporta al luogo disconosciuto di partenza. La trasformazione coniuga invece due figure: la presente e la nuova. Quando la gente e chi la rappresenta sbandiera il verbo “cambiare”, vuole soltanto dire: adesso tocca a me! Forse questo pensa il criceto mentre si affanna a correre in tondo: arrivo prima io! Cambiare tutto perché tutto resti uguale, diceva il Gattopardo. O ancora: avanzare alla cieca per non vedere il mondo che ti circonda. Affidarsi al nulla, alla sua voce senza parole, per non ascoltare le parole senza voce che formano e trasformano il mondo».

Thanopulos: «La poesia finisce con un’amarissima ironia: alla fine i barbari non arrivano. Questi tipi dalle maniere spicce, cultori delle volgari apparenze, non esistono. Sono il nostro riflesso sul muro che abbiamo alzato tra noi e la vita. Questo è il momento dello smarrimento ansioso, come scrive il poeta. Il silenzio inquietante del vociare senza parole vere: quelle che nascono dal senso di mancanza, dal gesto che muove il nostro desiderio oltre l’autoreferenzialità, che ci fa conoscere il mondo. Dietro il senso di onnipotenza barbarico si cela, come tu dici, l’impotenza negata del criceto che gira sempre più irrequieto nel suo folle circolo vizioso».