La ricordiamo bene quella sera d’estate in cui ritrovammo Pippo Delbono. Come in un nuovo inizio. L’avevamo perduto un po’ di vista, l’artista ligure, perduto lui nel gorgo della malattia e della difficoltà di trovarne l’uscita mentale e noi chissà. Quella difficoltà che ora ci raccontava con apparente leggerezza, la leggerezza che può nascere solo da una lucida consapevolezza – e ne spiavamo il riflesso in chi ci stava accanto. Eccolo infatti, su quella scena che non era neppure una scena, poco più che uno spazio preparato. Nuovo nella immediatezza espressiva che riportava al suo primo amatissimo Tempo degli assassini ma coniugata in una dimensione più collettiva. E non per caso.

Nuovi erano anche i suoi compagni, in larga parte. Corpi lontanissimi da qualsiasi possibile convenzione teatrale. Diversi anche fra loro. Un’altra bellezza, forse non grande ma riconoscibile. Lo spettacolo si intitolava Barboni, e non era solo metafora perché nella tessitura drammaturgica comparivano le poesie, lievi come haiku, ritrovate nella valigia che conteneva tutte le cose di un vecchio barbone (ma sì, chiamiamolo così, non se ne sarebbe vergognato), morto in mezzo a una strada di Genova. E c’era invece un ruvido affetto nelle parole della madre con cui Delbono apriva lo spettacolo, nella lingua ligure familiare, Pippu cosa fai, mi sembri diventato un barbone.

A un certo punto dello spettacolo lo vedevamo apparire tenendo per mano un piccolo uomo, dalla camminata incerta. E così vicini, l’uno sembrava ancora più grosso e l’altro più minuto e fragile. Andavano a sedersi l’uno accanto all’altro. Si lanciavano uno sguardo, come a interrogarsi. Cosa facciamo? Cosa siamo qui a fare? Fuori campo, per così dire, a un leggìo, Pepe Robledo cominciava a leggere altre parole, senza enfasi, senza coloriture. Con lo stesso ritmo lento con cui i due in scena andavano moltiplicando piccole gag. Con sorpresa si riconosceva allora un dialogo di Aspettando Godot, forse un po’ rimaneggiato, chi poteva dirlo con certezza. E in quelle due figurette era inevitabile proiettare i Vladimir e Estragon della pièce beckettiana.

Da allora in poi l’avremmo rivisto parecchie volte quello spettacolo e soprattutto avremmo ritrovato quel piccolo uomo, Bobò, con la sua sorprendente sapienza teatrale, diventato protagonista di tutte le creazioni di Pippo Delbono.

Ora riappare, quel folgorante frammento, sottratto alla tessitura dello spettacolo e riappropriatosi quindi di una propria autonomia scenica, attestata anche dal ritorno al titolo originario, uguale a come lo ricordavamo ma allo stesso tempo arricchito di una sorta di memoria fisica del teatro che gli attori hanno traversato. Eccoli riannodare, in pubblico, i fili del loro rapporto, quella complicità di sguardi che si diceva, una certa sprezzatura come a non prendersi troppo sul serio. Si prendono e si lasciano. Fingono duelli e piccole brutalità reciproche, mentre ogni tanto irrompono le note della chitarra di Piero Corso. Giocano, nel senso più teatrale del termine.

È un atto senza parole, molto beckettiano anch’esso. Su cui calano le parole del testo, interpolate per un momento da quelle di Bernardo Quaranta, così si chiamava quel poeta morto per strada. Rovesciando un’idea di rappresentazione, facendo cioè in modo che siano le parole a interpretare i gesti, quel senso di un’attesa da riempire, come una didascalia. Ed è anche una lezione di drammaturgia, simmetrica per certi versi al concerto che Angelica Liddell ha montato, sempre qui ad Asti, prendendo a spunto una manciata di canzoni soprattutto centro e sudamericane, per mettere in crisi con controllata violenza la falsa coscienza del loro sentimentalismo. Arte nella vita, certo. Finalmente.