In realtà si chiama Anna Liepina. Il nome Asja lo sceglie da ragazza, a quanto pare dopo aver letto l’omonimo racconto di Turgenev in cui una diciassettenne è così temeraria da dichiarare il suo amore a un giovane, che spaventato se la dà a gambe, salvo poi ritornare sui suoi passi quando però lei se n’è già andata altrove. Come cognome invece sceglie quello del primo marito, Julius Lacis, scrittore, deputato e ministro, prima di essere giustiziato per attività antisovietiche. Si sposano ventenni, fanno una figlia e divorziano. Ma lei continua per tutta la vita a farsi chiamare Asja Lacis.

È con questo nome dunque che passa alla storia come una figura chiave della cultura del Novecento: come la regista, l’intellettuale, la militante comunista lettone che ha svolto un ruolo fondamentale di mediatrice tra le avanguardie russe e il teatro politico della Repubblica di Weimar, come l’artefice della svolta marxista di Walter Benjamin e della sua amicizia con Brecht, un’amicizia che ha avuto un’importanza cruciale per il teatro e la filosofia europea.

A SEGNARLA in modo indelebile è la grande stagione dell’Ottobre teatrale russo, degli esperimenti rivoluzionari di Meyerchold, di Majakowski, di Evreinov, Tretjakow; la stagione in cui il teatro si avvicina all’azione di sabotaggio, diventa controinformazione, giornale vivente. Oppure spettacolo di massa che invade le strade per dividere, per far scoppiare le contraddizioni sociali. «Il teatro irrompeva nella strada e la strada nel teatro», scrive Lacis, che alla strada deve quello che è forse il suo vero capolavoro. Lo realizza nel 1918 a Orel, una cittadina russa invasa da frotte di ragazzi sbandati e abbandonati a sé stessi, vittime della guerra e della miseria. Per loro e insieme a loro, Lacis inventa un modello di educazione estetico-politica attraverso il teatro tutto basato sull’improvvisazione e su un lavoro collettivo che mira alla liberazione di energie creative e capacità tecniche. Quest’esperienza ispirerà il Programma di un teatro proletario di bambini scritto da Benjamin negli anni Venti e rimasto inedito fino a quando nel 1969 non fu ritrovato, insieme ad alcune lettere in cui veniva nominata Lacis, in un fascicolo custodito negli archivi della DDR, da giovani intellettuali marxisti tedesco-occidentali. Fu questo ritrovamento a trarre il nome di Asja Lacis dall’oblio in cui era caduta da decenni. Hildegard Brenner, caporedattrice della rivista «Alternative», la contatta in realtà perché è interessata alle lettere che le aveva scritto Benjamin, ma dalla loro corrispondenza nel 1971 nasce un libro, Revolutionär im Beruf, che raccoglie scritti di Lacis e diventa subito un cult book della sinistra, anche in Italia, dove viene tradotto nel 1976 con il titolo Professione: rivoluzionaria. Ora Meltemi lo ripropone in una versione accresciuta da altri scritti inediti in Italia con il titolo L’agitatrice rossa, a cura di di Andris Brinkmanis (pp. 246, euro 24), artefice anche della suggestiva installazione Archives of Anna ‘Asja’ Lacis, presentata alla Documenta 14 di Kassel nel 2017.

Il libro è uno spaccato di storia culturale del Novecento, avvincente come un romanzo d’avventura. Lacis considera l’arte come strumento di lotta e liberazione; concepisce la creazione artistica come una «fabbricazione di esplosivi» (Andrej Belyi). A Riga, nei primi anni Venti, dirige il teatro dell’Università popolare: mischia teatro e manifestazione politica, organizza discussioni e spettacoli che portano gli attori con i loro costumi di scena in corteo attraverso la città, davanti a migliaia di spettatori, per provocare le proteste degli uni e le esultanze degli altri, per dividere, per far scoppiare le contraddizioni. Propaga le nuove tendenze dell’arte sovietica, presto avversate da Lenin e altre personalità del Partito, tendenze come il Proletkult, o l’agitprop, che portano il teatro nelle strade, nelle fabbriche, nei comizi. Il partito comunista è vietato, e lei lavora sotto sorveglianza. Continue sono le perquisizioni, molti gli arresti, non poche le fucilazioni.

LACIS FINISCE IN PRIGIONE e appena rilasciata se ne va a Berlino, dove diventa una richiestissima portavoce dell’avanguardia sovietica, dove conosce Fritz Lang e recita una piccola parte in un suo film, dove si lega al regista Bernhard Reich in una relazione intellettuale e sentimentale che durerà per tutta la sua vita. Grazie a lui conosce Brecht, di cui diventa assistente nella messinscena della Vita di Eduardo II d’Inghilterra.
Per curare una malattia della figlia Dagmara, soggiorna per alcuni mesi a Capri, un altro luogo cruciale di quell’epoca di grandi fermenti. L’isola è un punto di attrazione di russi rivoluzionari o in fuga dalla rivoluzione, ma è anche un catalizzatore del turismo intellettuale europeo. Durante il soggiorno caprese incontra Marinetti, Brecht, Gor’kij, e soprattutto conosce Walter Benjamin. Passano insieme intere giornate, insieme si recano diverse volte a Napoli e scrivono un saggio che ha fatto epoca, perché introduce nel pensiero occidentale la categoria della porosità.

Ai loro occhi lo spazio urbano e sociale partenopeo è poroso perché in esso niente è definitivo, assertivo, concluso, tutto è in movimento, tutto può mescolarsi in forme sorprendenti: la perversione e la santità, il giorno e la notte, la festa e la vita quotidiana. I due amanti guardano alla città come a un grande teatro popolare, con un’infinità di palcoscenici simultanei, di scenografie, di inaspettate invenzioni registiche. Per lei è un po’ come nell’Ottobre teatrale russo: teatro e strada sembrano diventare una cosa sola. La casa non è un rifugio, ma una fonte inesauribile di vita che si riversa verso l’esterno.

I CURATORI della prima edizione degli Scritti di Benjamin, Gretel e Theodor W. Adorno, attribuiranno il saggio su Napoli al solo Benjamin, sostenendo – contro ogni evidenza – che il contributo di Lacis era stato irrilevante. Non solo: cancellano anche la dedica che apre Strada a senso unico: «Questa strada si chiama / Via Asja Lacis /dal nome di colei che / da ingegnere/ l’ha aperta dentro all’autore». Introducendo il Diario moscovita dell’amico, Gershom Scholem accusa Lacis di «cinismo erotico» e sostiene che nel diario manca «qualsiasi evocazione convincente di un suo profilo intellettuale».

Si tende così a sminuire Lacis come intellettuale e a trasmettere l’immagine di lei come femme fatale responsabile di aver sviato Benjamin verso il materialismo marxista, allontanandolo dalla tradizione e dalla moglie fedele.
Contro quest’immagine parla quasi ogni pagina dell’Agitatrice rossa, parla la creatività straripante di questa artista segnata dal richiamo irresistibile della lotta e della sperimentazione. A Mosca, nel 1926, Lacis allestisce spettacoli al teatro lettone, tiene conferenze, dirige un campo estivo per bambini, lavora come ispettrice presso l’organizzazione moscovita per la formazione extrascolastica, mette su un cinema per ragazzi completamente autogestito da ragazzi. Insieme a altri fonda il Teatro proletario in polemica con l’Associazione degli scrittori proletari russi, e per un breve periodo accetta persino un posto di censore dei testi e spettacoli teatrali.

A BERLINO, NEL 1929, torna con due incarichi: quello di direttrice della sezione cinema della Rappresentanza commerciale sovietica; e quello di inviata del gruppo Teatro proletario per prendere contatto con la Lega degli scrittori proletari-rivoluzionari tedesca. Forse c’è anche un terzo incarico segreto di natura spionistica. Grazie a Siegfried Kracauer, fa conoscere in Germania i nuovi documentaristi sovietici, primo fra tutti Vertov. Fa parte della cerchia di Brecht. Partecipa alle celebri conversazioni di Königstein con Benjamin, Gretel Karplus, Adorno e Horkeheimer, che preparano quella che poi sarà la Scuola di Francoforte.
Negli anni Trenta, al Teatro statale lettone di Mosca, continua a lavorare con gli strumenti del teatro agitprop, quando l’agitprop è ormai fuori norma e l’attualità è il realismo socialista. È il tempo delle grandi epurazioni. Quasi tutti i suoi collaboratori vengono arrestati, molti fucilati. Lei riesce a scamparla ritirandosi in campagna, ma per guidare un teatro itinerante della diaspora lettone, girando da kolchoz a kolchoz con attori non professionisti e gli scenari su carri tirati da cavalli.

Alla fine però viene deportata in un campo di lavoro in Kazakhstan. Al suo rilascio è costretta a stabilirsi in provincia, a Valmiera, dove è regista e poi direttrice del teatro locale, con il quale riprende a girare per i kolchoz. Ancora una volta trova la sua casa nella strada. «La strada è magnifica», aveva scritto da Napoli a un’amica. «La strada ha maggiore forza della casa. La strada è più importante e necessaria per il popolo». Il luogo del popolo non è l’interno borghese, il luogo del teatro non è l’interiorità borghese, ma lo spazio aperto e collettivo della strada, quello fatto dalla persone che si incontrano e si ritrovano – «nelle manifestazioni e nei cortei, nelle feste popolari e nelle improvvisazioni di massa» – per rimettersi in movimento, spinte dal desiderio di una vita diversa.