Fino a un anno fa, il termine «distanza» indicava lo spazio che separa fra loro luoghi, oggetti, persone. Poi l’accento si è spostato sull’atto stesso del distanziarsi, del mettere un determinato intervallo tra noi e l’altro, ed è dunque diventato un fenomeno sociale. Nelle sale da concerto, alla consueta distanza fisica tra chi suona e chi ascolta si è aggiunto l’obbligo di «contingentare» (altro termine che ha assunto una nuova accezione) lo spazio tra le persone in sala. E la musica, «classica» compresa, si è fatta strada spostandosi nell’esecuzione live a distanza, nella diffusione via streaming, in diretta oppure on demand, quindi registrata. Cosa resterà del distanziamento fisico, dello streaming e di tutte le altre misure «di difesa» quando l’emergenza sanitaria sarà finita? A dire il vero, per il settore della musica sinfonica e operistica l’uso di queste tecnologie non è una novità assoluta. In un contesto cronicamente afflitto dal mancato ricambio del pubblico, lo streaming, così come l’opera al cinema, sono state tra le strategie più adottate negli ultimi anni per accostare alla musica «colta» chi, vittima di un consolidato pregiudizio, pensava di non essere in grado di. comprenderla. In molti casi, il risultato è stato arrivare a quanti sono tuttora intimoriti dalla vetusta struttura rituale, che come una bolla circonda la musica classica e l’opera, imbalsamandole senza proteggerle. Dopo la fine dell’emergenza sanitaria, l’esecuzione a distanza potrebbe, quindi, continuare a risolversi in una opportunità per raggiungere un pubblico che comprenda magari anche i più giovani, non sempre accessibili. E dunque la distanza potrebbe favorire una nuova vicinanza.

«La radio porta ai concerti anche le tante masse che finora non avevano sentito il bisogno di frequentarli», scriveva Béla Bartók nel suo saggio Musica meccanizzata già nel 1937; ma «la musica radiofonica abitua per lo più all’ascolto superficiale del pezzo. Senza dire che mentre si ascolta si possono fare mille altre cose, fra cui anche parlare». E se i timbri – aggiungeva – risultano deformati, questo accade anche con la musica ascoltata da un computer. In ogni caso, dal vivo o da remoto, la nostra esperienza dell’ascolto musicale sembra destinata a cambiare: forse neanche tanto, però, visto che già prima della pandemia si ascoltava più musica registrata che dal vivo. Inoltre, siamo in un’epoca – e non esattamente da ieri – in cui l’arte dei suoni è sempre più il computer che la trasmette, il dvd che la contiene e le strategie di lancio che la pubblicizzano, per parafrasare Franco Fabbri. Già Umberto Eco notava che mentre «l’ascoltatore musicalmente preparato trarrà dall’ascolto radiofonico l’occasione per un rigoroso controllo del discorso musicale», quello sprovveduto coglierà «dall’isolamento cui la radio lo costringe l’occasione per i voli della propria fantasia» e la libertà di «abbandonarsi all’onda indiscriminata dei sentimenti e delle immagini».

Mentre aspettiamo la riapertura dei teatri per verificare se il ruolo dello streaming possa avere giocato a favore di un incremento dell’ascolto anche dal vivo, possiamo comunque dire che già da tempo questa tecnologia ha assolto al compito di traghettare concerti e opere liriche al di là dello spazio scenico. Resta il fatto che nulla è ovviamente paragonabile all’essere in presenza, all’esperienza della totale immersione nell’ascolto, al partecipare all’applauso liberatorio, qualsiasi sia il senso che gli si voglia dare. Tuttavia, per quanto la radio, la registrazione e lo streaming propongano altro dalla irripetibilità di quella esperienza, la sua irriproducibilità è in effetti intrinseca alla natura stessa di una interpretazione, ogni volta diversa perfino per chi ne è l’artefice.