Lo avevano soprannominato Il Passatore per via del mestiere del padre, traghettatore di gente e merci da una sponda all’altra del Lamone, che scorre tra Romagna e Toscana. A quel soprannome, nella poesia Romagna, Giovanni Pascoli aggiunse l’aggettivo ‘cortese’, rafforzando così il mito del brigante gentiluomo. Brigante, infatti, era Stefano Pelloni, nato a Boncellino di Bagnacavallo nel 1824 e morto in un agguato della polizia pontificia a Russi, dintorni di Ravenna, il 24 marzo 1851. Ma con la famiglia Artusi, Il Passatore cortese non fu. Il 25 gennaio 1851, Pelloni, insieme ad alcuni membri della sua banda, entrò nel teatro comunale di Forlimpopoli e rapinò gli spettatori. Gli altri svuotarono le case del paese. In casa Artusi era rimasta una delle figlie, Gertrude, che per lo spavento impazzì, finendo in manicomio. Sconvolti dall’accaduto, Agostino e Teresa Artusi si trasferirono a Firenze, e lì continuarono l’attività di commercianti. La stessa che uno dei dieci figli, allora trentenne, intraprese con successo. Quel figlio si chiamava Pellegrino.

Appassionato di letteratura e di cucina, dopo l’elezione di Firenze a capitale, il giovane imprenditore decise di abbandonare gli affari per ritirarsi a vita privata e coltivare le sue ambizioni di penna. A proprie spese pubblicò una biografia del Foscolo e un saggio su trenta lettere di Giuseppe Giusti. I due tomi scomparvero nel nulla. Sempre di tasca propria, ma con esiti ben diversi, diede alle stampe nel 1891 un migliaio di copie di La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Come lo stesso Artusi ebbe a raccontare, un accademico, terminata la lettura del libro sentenziò «Avrà poco esito». E invece… Invece il re dei manuali di cucina ne curò, fino alla morte nel 1911, quindici edizioni. In tempi a noi vicini, rimane pietra miliare l’edizione del 1970, pubblicata da Einaudi e curata da Piero Camporesi, con un’introduzione nella quale afferma «La Scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare I Promessi sposi… I ‘gustemi’ artusiani sono riusciti a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani».

Pur emigrato in Toscana, Pellegrino rimase molto legato alla sua Romagna. La scienza dedica molte ricette alla cultura gastronomica delle due regioni, in particolare di quel territorio ‘di passaggio’ dove, da Pisa a Marina di Ravenna, scorre la Statale 67, la cosiddetta Via Artusiana. A Forlimpopoli, punto di partenza obbligato, Casa Artusi è divenuta centro culturale che accoglie una scuola di cucina, una biblioteca, un’enoteca, e organizza convegni e serate a tema. Dal 1997 qui si svolge la Festa Artusiana. L’edizione di quest’anno, primo/ nove agosto, festeggerà il bicentenario della nascita di Pellegrino. Il ristorante, impagabile cenare nella corte, propone un menu ‘da manuale’, a prezzi molto onesti. La cultura si nutrirà seguendo un piccolo itinerario pittorico. Nella basilica di San Ruffillo si incontrano due pale d’altare rinascimentali di Luca Longhi e Francesco Menzocchi; un’altra pala d’altare, Annunciazione, 1533, di Marco Palmezzano, è custodita all’interno della chiesa dei Servi, mentre quella della Madonna del Popolo conserva diciotto dipinti di Giuseppe Marchetti, secondo ’700. La trecentesca Rocca Albornoziana domina la piazza del paese.

Dai due guadi sul Montone prese nome Dovàdola, abitata fin dalla preistoria, come attestano gli scavi archeologici. Passarono da quelle parti romani, goti, longobardi, e nel 1405 il paese divenne possedimento della Repubblica di Firenze. Agli albori dell’Anno Mille, i conti Guidi ampliarono la Rocca, costruita tra l’ottavo e il nono secolo dal vescovo di Ravenna. Al Mille risale anche la chiesa di Sant’Andrea, rifatta in epoca rinascimentale, la stessa degli affreschi e dei dipinti che la decorano. Di una Rocca Sancti Cassiani in Casatico (nome antico del fiume Montone) scrive già un documento del 1197, alludendo al castello, di cui rimangono alcune rovine sopravvissute al terremoto del 1661. Su Piazza Garibaldi, triangolare e chiusa su ciascun lato da una fila di portici, veglia la Torre dell’Orologio. Percorrendo quattro chilometri della Provinciale che collega Rocca a San Zeno, si arriva all’abbazia benedettina di San Donnino in Soglio, attestata dal 1214. Sulla facciata spiccano i bassorilievi romanici degli Evangelisti; sotto la volte della navata si fa ammirare il ciclo di affreschi tardo gotici Episodi della vita di San Donnino.

Di grande interesse l’impianto medioevale del comune sparso di Portico e San Benedetto, su tre livelli collegati tramite una serie di passaggi tutt’ora praticabili. La parte alta ospitava il castello, ne rimane solo una torre, il palazzo del podestà e la pieve. Il piano intermedio era riservato alle residenze nobiliari, mentre in basso, seguendo il corso del Montone, erano allineate le abitazioni del popolo e le botteghe artigiane. La visita di Portico deve iniziare dal palazzo di Folco Portinari, padre di Beatrice. Stando alla leggenda, nelle nobili stanze sbocciò l’amore tra Dante Alighieri, ospite del potente banchiere, e la donna che ‘Tanto gentil e tanto onesta pare’. La chiesa di Santa Maria in Girone, in cima a una roccia, undici secoli di età, venne riedificata nel 1776. Merita attenzione il Santuario della Beata Vergine del Sangue. Le appartengono una tela di scuola fiamminga e una tavola dipinta su legno, Madonna del Sangue, eseguita da Lorenzo di Credi, allievo del Verrocchio. Via Borgo al Ponte conduce al Ponte della Maestà che, dopo aver scavalcato il fiume con la sua arcata, si inginocchia davanti all’oratorio dell’Annunciazione.

Dante ritorna in quel di San Benedetto in Alpe, tra i vapori della cascata dell’Acquacheta, che il poeta cita nel Sedicesimo Canto dell’Inferno, «… rimbomba là sovra San Benedetto/ de l’Alpe per cadere ad una scesa/ ove dovea per mille esser recetto;/ così, giù d’una ripa discoscesa,/ trovammo risonar quell’acqua tinta,/ sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa». A dettare la storia di San Benedetto fu l’omonima abbazia benedettina, fondata nella prima metà dell’undicesimo secolo da san Romualdo e destinata a diventare una delle più potenti abbazie dell’Appennino Tosco- Romagnolo. Testimoniano il primitivo edificio porzioni della cripta e delle mura esterne, una torretta e un portale ad arco, sperduti nel silenzio e nel verde perfetti del Parco delle Foreste Casentinesi. Altri richiami arrivano dalla frazione di Bocconi: il ponte della Brusìa, tre arcate a schiena d’asino; il borgo della Bastìa che si sviluppò intorno al castello, la Torre delle guardie. Avvertite improvvisamente un certo appetito? Inevitabile, quando si legge della Via Artusiana. E soprattutto quando, lungo la Via, si viaggia.

Appendice: Paolo Poli legge Artusi
Non c’è timore di venir contraddetti affermando che la cucina è poesia. Sono poesia le materie prime di una ricetta, i profumi che sprigionano e i colori che assumono durante la cottura; i sapori che prima annunciano e poi regalano al palato quando, divenute un primo o un secondo, arrivano nel piatto. Artusi seppe trasformare la poetica della cucina in prosa. E lo fece adottando un linguaggio ricco, forbito, autorevole e al medesimo tempo rassicurante, che dettava regole con una punta di sorridente ironia. Non c’è dunque da stupirsi che nel 2014 Paolo Poli abbia accettato di leggere, anzi recitare, le 790 ricette de La scienza della cucina e l’arte del mangiar bene per un audiolibro pubblicato dalla Edemons. Il linguaggio dell’Artusi ha infatti forti somiglianze con la personalità e l’impronta artistica del grande attore fiorentino.

Nel corso di alcune interviste rilasciate allora, Poli raccontava come quell’opera fosse stata l’abecedario della sua infanzia, su cui aveva imparato a leggere «Scoprii che con il riso si facevano le frittelle di san Giuseppe, e così ero sempre lì a chiedere alla mia dolcissima nonna di prepararmele». Altro elemento di fascino, proseguiva Poli, era il modo di cucinare, una cucina ‘sorvegliata’ che oggi non può esistere più «Oggi non potremmo di certo affrontare una ricetta che esordisce con ‘Fate bollire per tre ore…’». E poi la democrazia ‘indiretta’ di La scienza «In bella lingua italiana dava consigli, indicazioni, modi di preparazione che prima di allora erano scritti in francese, e perciò destinati solo ai ricchi. Io sono figlio di un carabiniere e di una maestra di scuola elementare, ma ricordo bene che nel cassetto del tavolo di cucina mia madre teneva una copia dell’Artusi». Ascoltate Paolo Poli mentre legge la ricetta del polpettone «Signor polpettone, venite avanti, non vi peritate. Voglio presentare anche voi ai miei lettori». Il confine tra poesia e prosa si fa quanto mai incerto.