Scrittore «desgarrado y necesario»: queste le parole con le quali, durante la cerimonia alla Biblioteca Nacional di Madrid, è stato ricordato Rafael Chirbes. «Desgarrado» ovvero irriverente, provocatorio quasi fino alla sgradevolezza. Un uomo impegnato – ha detto di lui l’amica scrittrice Marta Sanz – «controcorrente», a denunciare la crisi, economica, politica e quindi sociale, di una Spagna finta tonta, che ha fatto il possibile per scordare il suo passato recente – la Guerra Civile, la miseria, il Franchismo – rinunciando alla propria storia collettiva e alle ideologie in cambio del facile accesso al denaro e a una «bella vita», allettante quanto effimera.

Desgarrado Chirbes lo è nei suoi romanzi più noti, da Mimoun a Crematorio a Sulla Sponda, così come nei saggi e nelle interviste. Persino nelle rassegne gastronomiche, quando si scagliava contro la maionese light, simbolo comico di un’irritante anoressia del pensiero. Intanto, per lo meno dal 1996, anno in cui viveva e lavorava in Estremadura, Chirbes ha continuato a rimaneggiare e mettere via Paris-Austerlitz (traduzione di Pino Cacucci, Feltrinelli, pp. 104, euro  13, 00), dato finalmente per concluso poco prima di morire e uscito postumo in Spagna nel 2015.
Quasi vent’anni di gestazione per poco più di cento, splendide pagine, fitte, pulite e infestanti come un canneto. Occorre «trattenere il male sulla soglia di casa per un minuto», ha detto Chirbes. «Tardarne l’entrata per un minuto». Resistergli quanto si può, che di certo è pochissimo, nella consapevolezza della sua ineluttabilità. Se questo vale per l’intera sua opera, tanto più sembra valere per Paris-Austerlitz, dove il male prende la forma della plaga, la malattia.
Chi parla, il narratore, è un giovane uomo di neppure trent’anni. Nessuno lo chiama mai per nome, però di lui si sa che è madrileno, comunista, che la sua famiglia è benestante e che è un aspirante pittore. Arriva a Parigi per sfuggire a un ambiente domestico asfittico e, magari, dipingere; ma, privato almeno temporaneamente del sostegno economico dei suoi, si ritrova a vagare per la città senza il becco di un quattrino. Conosce dunque il cinquantenne Michel, operaio specializzato originario della Normandia. Si piacciono, si innamorano e, gioco-forza, vanno a vivere insieme a Vincennes, il quartiere degli emarginati, nel buio appartamento del francese. Il ragazzo, infatti, non ha un posto dove andare: «On reste ensemble toute la nuit?», gli chiede Michel la prima sera. «Rise quando risposi che non c’era altra scelta perché non avevo una casa. T’as pas de maison? No, no. Rise ancora: mi sono infilato nel letto il clochard più elegante di Parigi».

Poi la storia finisce e neanche benissimo, nonostante la promessa di restare «buoni amici». Troppe differenze: di età, di condizione sociale, di progetti. Niente di trascendentale, se non fosse che Michel, qualche mese più tardi, scopre di essere ammalato. La sua malattia non ha niente di misterioso, però neanche quella viene mai chiamata per nome. Scriveva il poeta portoghese Al Berto in Sida/Aids: «né la vita né quello che ne resta ci consola / e l’assenza sfolgora nell’alba dei mattini».
Paris-Austerlitz non consiste della sua trama, in fondo poverissima. È piuttosto il resoconto intransigente e ostinato di un fisiologico processo di smaltimento – come la borra del gufo o la muta di un serpente. Volentieri il ragazzo passerebbe oltre Michel e il suo corpo da «forzuto di un circo», ma la gravità della situazione lo costringe al suo capezzale. Ci resta per senso del dovere, controvoglia, dandosi piccoli compiti – qualche visita, le sigarette, l’acqua alle piante, ritirare la posta.
È atterrito dallo spettro del contagio. Finché, quando i risultati delle analisi lo rassicurano confermandogli che è «pulito», comincia, quasi per completare la propria lavatura, a espellere i dettagli della sua storia d’amore, restituendo inoltre alla pagina tutto quello che Michel gli ha raccontato di sé: l’infanzia grama, la guerra, la madre prostituta. Il padre suicida, «appeso alla trave del pollaio». Con disincanto o, come direbbe Benjamin, con «organizzato pessimismo», il ragazzo scrive quasi rispondendo a una domanda sottilmente crudele: ho scordato qualcosa? Cos’altro c’era?
Ne risulta una cronaca scomposta e discontinua, fatta di parole e eventi fuori asse, al posto sbagliato, cioè dove si notano di più. Come aveva detto altrove lo stesso Chirbes, la bella scrittura altro non sarebbe, infatti, nella sua obbedienza a parametri condivisi e prestabiliti, se non «la maschera della menzogna». Per questo non va praticata.

Lo sforzo è quello di afferrare, tolti di mezzo fronzoli e cliché benevolenti, qualche scampolo di verità sull’amore. Che può anche essere utile, cioè interessato: si può amare, non avendo nulla, chi una casa ce l’ha, e anche un «ventaglio impolverato» e un «asinello di paglia col sombrero», e inoltre uno stipendio. Che le classi sociali esistono e pesano sulla definizione dei bisogni e del sentimento, perché è diverso crescere poveri in Normandia, con l’acqua che sgocciola in casa, e venire su nell’agio, con una madre che ti soffoca di attenzioni, bei vestiti e ghiottonerie costose. O che l’amore finisce, senza che ciò significhi che allora non c’è mai stato, come Michel rimprovera al suo giovane amante. Della coppia è lui il più candido, rimasto ingenuo e ottimista a dispetto degli anni e delle innumerevoli batoste. Ma se questo è il suo fascino, è anche il suo limite: le sue strategie per assicurarsi la compagnia del ragazzo sono patetiche e infruttuose. Anche chi legge finisce per sentirsi soffocato dall’impetuosità di questo operaio normanno: Je t’ai eu, ti ho acchiappato, ripete. «Sempre attaccato a me, sempre a toccarmi, senza permettere che mi concentrassi sul lavoro».

L’estanque, il «piccolo stagno delle abitudini», cioè l’ideale di felicità di Michel, si contrappone al tarlo che rode giorno e notte il suo amante e che, alla fine, lo allontana. Né potrà riconquistarlo la malattia, anzi: è proprio di fronte al letto di morte di Michel che il ragazzo con più determinazione si rifiuta agli obblighi incerti e persino sociali cui un amore, per giunta finito, lo vorrebbe esposto: esibire il proprio lutto inconsolabile e la propria abnegazione.
L’intera struttura del romanzo, esile come Michel, ridotto a un «atlante delle ossa umane», si oppone elastica a ogni stereotipo. Nessuna pagina è interamente celebrativa e il dubbio si insinua ovunque: il lieto fine è non solo impossibile ma addirittura poco desiderabile. Ogni parola insiste infatti a indicarci la propria imprescindibile ombra, il suo doppio, il suo contrario; sortendo l’effetto neanche troppo paradossale di restituire dignità e unicità ai protagonisti della vicenda. Che se non possono giovarsi della sicurezza garantita dai ruoli, riescono tuttavia a mostrare di se stessi la parte più autentica e ribelle. Solo, naturalmente, per un minuto. Quell’unico minuto in cui si riesce a trattenere il male sulla soglia di casa.