Sono due i modi usati dalla politica per neutralizzare i tre quesiti referendari proposti dalla Cgil sulla cui ammissibilità si pronuncerà la Consulta l’11 gennaio. Il primo riguarda il quesito che intende abrogare la norma sui licenziamenti illegittimi e intende fare pressione sulla consulta alludendo a una sua presunta “incostituzionalità”. Il secondo riguarda il quesito che vuole «abrogare i voucher usati in maniera flessibile e illegittima» attraverso un intervento parlamentare o del governo alla luce di diverse opzioni, non ancora chiarite. Ad oggi il terzo quesito sull’abrogazione delle norme che limitano la responsabilità sociale sugli appalti resta fuori dalle polemiche.

Partiamo dal ripristino dell’articolo 18 che preoccupa i promotori del Jobs Act schierati a difesa della riforma renziana per eccellenza (insieme alla “Buona Scuola”). La Cgil ha raccolto più di un milione di firme (a cui vanno aggiunti altri due per abrogare i voucher e sugli appalti, per un totale di tre milioni) per chiedere il referendum per il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare giudicato illegittimo, estendendolo anche per le aziende sotto i 15 dipendenti, fino a 5 dipendenti.

In un’intervista programmatica rilasciata il 15 dicembre scorso a Repubblica il giuslavorista e senatore Pd Pietro Ichino ha dettato la linea: «Il quesito è inammissibile – ha detto – perché il quesito non è unitario, non ha per oggetto l’abrogazione di una norma, ma la creazione di una norma nuova, che non è mai esistita». Su questa linea si è schierato il bocconiano Maurizio dal Conte, nominato da Renzi alla presidenza dell’agenzia delle politiche attive (Anpal) che ha aggiunto una tesi fantasiosa secondo la quale l’abrogazione del Jobs Act su questo punto porterebbe a un boom di licenziamenti e della precarietà: «Molte aziende ridurrebbero il loro organico per scendere sotto il nuovo tetto», ha detto ieri al Corriere della Sera.

I dati Inps raccontano un’altra realtà: da gennaio a ottobre i licenziamenti «disciplinari» per giusta causa e giustificato motivo sono aumentati del 28% a causa del Jobs Act, mentre continuano ad aumentare i contratti a termine riformati dal governo Renzi. Il 75% delle nuove assunzioni è precaria, ha calcolato la Fondazione Di Vittorio (Cgil) sulla base dei dati Inps. A queste tesi ha risposto puntualmente la Cgil con un post pubblicato su Facebook: la costituzionalità dei tre quesiti è «manifesta» sostiene il sindacato di Corso Italia. Nessuno riguarda leggi a «contenuto costituzionalmente vincolato». Se abrogate le parti delle norme contestate, non sarebbe pregiudicata la Costituzione. I licenziamenti illegittimi, la responsabilità verso i lavoratori in caso di appalto e i voucher dipendono dalle decisioni dei governi ed è su questo che gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi in una consultazione in cui è previsto il quorum.

I giuristi che hanno accompagnato la Cgil nella definizione dei quesiti sottolineano che il Jobs Act non è conforme alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che ha lo stesso valore dei Trattati. La legislazione in vigore dopo Renzi non prende sanzioni contro il licenziamento ingiustificato, mentre la Carta europea riconosce tale diritto a ogni lavoratore. Sui voucher la partita è chiara: si cerca di neutralizzare il quesito abrogativo evocando un intervento legislativo che il ministro del lavoro Poletti non ha escluso, anche se attende l’esito del monitoraggio Inps dopo l’introduzione della tracciabilità dei “buoni lavoro”. Attesa inutile, dato che nel 2016 i voucher supereranno ogni record. Nei primi dieci mesi dell’anno sono stati venduti 121 milioni di voucher.

Due sono le alternative proposte in queste ore. Si parla di tornare alla legge Biagi del 2003 che ha istituito questa peculiare forma di lavoro occasionale, limitandola alle prestazioni realmente occasionali e non all’intero mercato del lavoro come deciso dai governi Motti e Letta, entrambi sostenuti dal Pd. Si sostiene, inoltre, la possibilità di abbassare il limite massimo di incasso per singolo lavoratore: da 7 a 5 mila euro, o addirittura a 2 mila. Intervento inutile perché, come dimostrato dai dati Inps, la stragrande maggioranza dei voucheristi (1 milione e 380 mila nel 2015) non ha superato i 633 euro annui.

Non è escluso aumentare comunque, nel privato e nel pubblico, a cominciare dagli enti locali. Contro il quesito della Cgil si sostiene che la vittoria del Sì all’abrogazione porterebbe a un aumento del lavoro “nero”. Su questo punto la formulazione del quesito potrebbe risultare incerta, ma è inequivocabile l’intenzione di riportare il voucher al suo uso originario. In generale si trascura un elemento materiale decisivo emerso in una ricerca Inps sul «lavoro accessorio dal 2008 al 2015»: il voucher non fa emergere il lavoro nero, ma lo aumenta insieme al lavoro precario già esistente.

Si prospettano  settimane di disinformazione in cui la politica sfuggirà al principale problema: non basta il maquillage della riforma renziana, è necessaria l’abolizione integrale di un provvedimento che ha regalato tra gli 11 e i 18 miliardi di euro alle imprese con risultati a dir poco discutibili sull’occupazione. Questo è il contenuto politico del referendum Cgil che si cerca di occultare.