«I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di mutarlo». Con l’avvento della Rivoluzione d’ottobre l’undicesima tesi su Feuerbach di Marx sembra finalmente avverarsi. Majakovskij è protagonista e interprete di questo primissimo vagito sovietico, e ricordando in versi quella stagione nel 1930, anno del suo suicidio e del suicidio stalinista del socialismo, scrive: «Noi aprivamo/ ogni tomo/ di Marx,// come in casa/ propria/ si aprono le imposte,// ma anche senza leggervi/ noi comprendevamo// da quale parte andare,/ in quale campo combattere» (da A piena voce, traduzione di Angelo Maria Ripellino). Già dalle prime battute rivoluzionarie gli avanguardisti russi sono pronti ad agire e vedono davanti a sé la possibilità di creare un mondo nuovo, ma solo a patto di rompere lo statuto autonomo dell’opera d’arte. Sentono che è necessario riportare l’arte nella vita e trasformare le strade in «una festa dell’arte destinata a tutti». E così Majakovskij, insieme con i futuristi Burljuk e Kamenskij, nel marzo del 1918 ricopre Mosca di manifesti come il Decreto N° 1 sulla democratizzazione delle arti.
In quello stesso anno il critico Nikolaj Punin riflette l’esigenza di fare dell’arte uno strumento di trasformazione del modo di vivere, annullando la sua separazione dall’industria. Sembra insomma venuto il tempo in cui gli artisti escano dai loro studi e collaborino con ingegneri, scienziati e amministratori per lavorare insieme alla riorganizzazione della vita. In questa prima fase si gettano le basi ideologiche per un tipo di espressione legata ai processi di produzione. Agli inizi degli anni venti il gruppo dei costruttivisti sembra dominare ideologicamente la scena pubblica. Il suprematismo di Malévitch, in fondo, non rinuncerà mai all’autonomia sacrale dell’arte, ma i costruttivisti sono programmaticamente pronti ad alienare l’arte nella materia per farla riemergere in una percezione nuova del mondo. Già nel 1914 Tatlin si prefigge di «far scendere l’arte dal proprio piedistallo», utilizzando dei materiali industriali e aprendo l’opera allo spazio. Spazio che diventerà insieme estetico e politico con il suo famoso prototipo di Monumento alla III Internazionale (1919-’20).
Seguendo le orme di Tatlin la maggior parte dei costruttivisti dice addio alla pittura da cavalletto. Come nel caso di Rodcenko, la cui ultima opera pittorica (1921), dall’evidenza suprematista, è un quasi-quadrato tutto dipinto di rosso. Ed è da questo ultimo quadro e dal suo colore altamente simbolico che prende l’abbrivio la mostra al Grand Palais di Parigi Rouge Art et utopie au pays des Soviets, in corso fino all’1 luglio. Si tratta di un complesso e ampio excursus documentale che, con più di quattrocento opere tra pittura, scultura, architettura, fotografia, cinema, design, testimonia del rapporto tra arte e potere nella Russia sovietica dalla Rivoluzione d’ottobre alla morte di Stalin.
Un’esposizione vasta ed enciclopedica che nei suoi tratti essenziali mostra come per tutta la durata degli anni venti in Russia diversi gruppi di artisti si oppongano tra loro per definire cosa deve essere considerato l’arte del socialismo. Semplificando, l’agone artistico è così polarizzato: da una parte il «produttivismo», cioè arte intesa come presa diretta sulla materia fisica, sociale e umana; dall’altra parte il «realismo socialista» come figurazione che manipola questa stessa materia attraverso il filtro della rappresentazione idealizzante. Come sappiamo, il potere stalinista sceglie quest’ultima per mistificare il proprio orrore totalitario. Nel 1939 è il pluripremiato pittore Alexandre Guerassimov, in seguito presidente dell’Accademia di Belle Arti dell’URSS, ad affermare che l’arte deve essere «realista nella forma e socialista nel contenuto». E in ultima istanza, a quanto si vede in mostra, non possiamo non dare ragione al curatore Nicolas Liucci-Goutnikov quando sostiene che lo stato socialista diviene un formidabile produttore di immagini in cui, alla stregua della Kulturindustrie occidentale teorizzato da Adorno e Horkeimer, la formula soppianta l’opera d’arte.
Come dicevamo a proposito di Rodcenko, divenuto poi insieme alla moglie Stepanova campione del fotomontaggio e non solo, nei circoli di sinistra la pittura viene considerata un residuato borghese e sembra essere scomparsa. La predilezione di forme aperte è funzionale a una ricezione collettiva ed è capace di stabilire un legame col reale più diretto e meno mediato dalla semplice rappresentazione. La locuzione «utopia concreta» coniata da Ernst Bloch è allora calzante se applicata a questa via produttivista dell’arte, che aveva lo scopo ultimo di trasformare la vita. Ma non essendoci il reale sostegno dello stato questa utopia è rimasta allo stadio di prototipo, come nel caso più eclatante del Monumento di Tatlin.
Se l’obiettivo degli avanguardisti è quello di portare l’arte nella vita, sull’altro versante si rivendica la peculiare istanza conoscitiva dell’arte più tradizionale. Viene creata nel 1922 l’AKhRR (Associazione degli artisti della Russia rivoluzionaria), il cui obiettivo è di tipo documentario per ritrarre le fasi salienti della rivoluzione. Grazie alla loro facile leggibilità per le masse – come nei casi de Il corrispondente operaio di Perelman e L’insegnante di campagna di Katsman, dove si ritraggono nei loro contesti due figure chiave dell’apparato dottrinario sovietico – l’attività dell’AKhRR riesce più facilmente ad avere il sostegno dello Stato. Ma allo stesso tempo un ritorno al cavalletto si impone anche per alcuni artisti provenienti dai circuiti avanguardistici. In opposizione all’AKhRR nasce nel 1924 l’OST (Società dei pittori da cavalletto), che getterà le basi per l’arte del realismo socialista. Una ricerca pittorica che nasce dal fotomontaggio, in cui l’ideal-operaio e l’ideal-contadina vengono riprodotti in contesti simbolici e astraenti, come le donne sulle linee di acciaio nel Cantiere di costruzione di nuove fabbriche di Deineka o gli operai agglutinati agli ingranaggi nel Carter del turboreattore di Pakulin.
Con Stalin, a partire dal 1929, le istanze artistiche vengono assorbite e irrigidite nelle funzioni dogmatiche dallo Stato. Stato che a partire dal 1932 decide di regolare l’organizzazione artistica secondo il proprio utile. Ovviamente questa pervicace intromissione del potere allontana irrimediabilmente l’arte dalla vita concreta. La trasformazione sociale, che i produttivisti pensavano di avere nelle proprie mani, resta appannaggio esclusivo dello Stato. I pittori, i fotografi e i documentaristi inviati nelle fabbriche e nelle campagne sono invitati a mostrare l’entusiasmo e l’ottimismo del lavoro per la causa comunista. Anche gli architetti ritornano all’ornamento, al colonnato e alle grandi opere in stile impero. E una certa maniera di rassicurante rappresentazione piccolo-borghese torna in auge. Ogni artista che vuole rendere pubblico il proprio lavoro deve rispettare il modello accademico. E il vigoroso pensiero utopico degli albori rivoluzionari va via via a sdilinquirsi dietro un patetico e mistificatorio kitsch di stato. Kitsch come il caramellato dipinto monumentale del 1939 in cui Svarog ritrae Stalin al parco Gor’kij tra bambini festanti e i membri del Comitato centrale del Partito, tra i quali uno, fatto eliminare in seguito dal dittatore, viene accuratamente cancellato anche dal pittore.