Sean Scully che lavora al monastero di Santa Cecilia a Montserrat; Anish Kapoor che espone nel convento domenicano di La Tourette, capolavoro di Le Corbusier; Nicola De Maria che affresca l’absidiola di San Fedele a Milano: e citiamo solo convergenze di questi mesi recenti. Tra arte contemporanea e chiesa cattolica sembra essere esploso un improvviso feeling, forse esito di quella mossa che ha portato il Vaticano a varcare il Rubicone e a investire su un proprio padiglione in occasione delle ultime due Biennali veneziane. Quanta acqua sembra essere passata sotto i ponti da quel 7 maggio 1964 quando papa Paolo VI pronunciò lo straordinario discorso agli artisti, in cui chiedeva perdono per tante incomprensioni e soprattutto banalizzazioni da parte della Chiesa, ma in cui poneva anche domande venate di angoscia: «Voi sapete che portiamo una certa ferita nel cuore, quando vi vediamo intenti a certe espressioni artistiche che offendono noi, tutori dell’umanità intera, della definizione completa dell’uomo, della sua sanità, della sua stabilità».
È storia tormentata quella delle relazioni tra Chiesa e arte moderna. Storia di una distanza progressiva, di una drammatica perdita di autorevolezza intellettuale del più importante committente che l’arte occidentale abbia avuto nel suo passato. Eppure, nonostante questa caduta degli «ordinativi» e questo sganciamento dal luogo fisico delle chiese, l’iconografia cristiana non si è eclissata dal catalogo degli artisti del secolo breve. Se ne può avere chiara conferma visitando la bella mostra, allestita a Palazzo Strozzi a Firenze e curata da uno studioso serio come Carlo Sisi (Bellezza divina, sino al 24 gennaio, catalogo Marsilio). Il percorso copre un secolo, tra metà Ottocento e metà Novecento, e si appoggia su una serie di prestiti di prim’ordine. È un percorso interessante perché condensandosi in aree tematico/iconografiche riesce a registrare meglio le oscillazioni tra le varie sensibilità: molto belle, e per certi versi sorprendenti, ad esempio, le due condensazioni attorno al tema dell’Annunciazione e a quello della Crocefissione.
Uno dei tratti distintivi del percorso è certamente il soggettivismo degli artisti nell’approccio all’iconografia cristiana. Nella gran parte dei casi, a cominciare dal San Sebastiano di Gustave Moreau, «inquieto amalgama di estetismo e spiritualità», come scrive Sisi nella scheda di catalogo, si tratta di meditazioni individuali, pensate per il mercato e per venire incontro a un gusto e a una domanda collezionistica. L’incidenza della committenza ecclesiastica, esclusi alcuni rari casi, si è sostanzialmente azzerata: con questo viene meno uno dei meccanismi che aveva garantito nei secoli un surplus di pensiero, una quadratura concettuale agli artisti che si inoltravano sui terreni dell’iconografia cristiana. Persino la grande Flagellazione di Bouguereau del 1880, di gusto assolutamente conservatore e tradizionale, era stata dipinta per essere esposta al Salon di Parigi del 1880 e non per la cappella di una chiesa. Nasce in prospettiva del tutto soggettivistica anche un quadro apparentemente corale come l’Angelus di Millet, uno dei prestiti più importanti della mostra. Il quadro era stato richiesto da un pittore americano, Thomas Appleton, che però non rispettò la promessa di acquisto e così restò nello studio del pittore prima di finire sul mercato. Millet usa l’immaginario di una Francia religiosa e contadina per rispondere alla pittura nuova di matrice sociale e politica che stava facendo irruzione sulla scena di Parigi, in particolare per mano di Gustave Courbet. L’Angelus è un quadro di resistenza estetica, non è un quadro che indichi un’appartenenza di Millet al mondo che rappresenta. La stessa cosa si potrebbe dire di un’opera di natura molto simile e che sarebbe stato bello vedere affiancata alla tela di Millet: l’Ave Maria a trasbordo di Segantini, dipinta quarant’anni dopo, all’interno di una logica molto simile a quella di Millet. Non c’è adesione né culturale né sociale al mondo rappresentato: queste sono «icone» di un universo contadino marginalizzato dal trionfo della vita di città, esito di percorsi individuali e tutti interiori da parte di Millet e Segantini.
L’interiorizzazione dell’iconografia cristiana è del resto una delle chiavi che spiega le continue oscillazioni con cui ci si confronta visitando la mostra. Non esistono mai filoni, perché ogni artista porta il soggetto sacro sui propri terreni e lì ci si confronta. I tentativi di impostare il discorso di una nuova tradizione sono del tutto marginali o frutto ancora una volta di iniziative individuali, come quello di Salvador Dalì, che il 23 novembre 1949 aveva portato a papa Pio XII la sua Madonna di Port Lligat, che proponeva una rivatilizzazione del grande linguaggio del Rinascimento italiano. Come spiega Ludovica Sebregondi nel saggio in catalogo, non si trattava di una pretesa velleitaria ma di un tentativo meditato «strettamente legato alla sua comprensione delle scoperte scientifiche e in particolare alle particelle atomiche… Un insieme di era atomica e dottrina cattolica da lui definito “mistica nucleare”».
In effetti gli artisti hanno dovuto misurarsi con una sorta di esplosione da dentro dei soggetti cristiani. Emblematica ad esempio l’esperienza di Van Gogh, artista a fortissimo voltaggio religioso, tanto da aver pensato, a un certo punto della sua vita, di seguire la strada del padre, predicatore della chiesa riformata olandese (nelle lettere di Vincent sono state contati oltre ottocento riferimenti ai testi biblici). Eppure Van Gogh non dipinse mai la figura di Cristo, tolto il caso della piccola Deposizione presente in mostra, realizzata in due repliche, partendo da una matrice precisa: l’analogo soggetto dipinto da Délacroix, un artista che, nelle parole di Vincent, aveva «un uragano nel cuore»). Un’opera conosciuta attraverso una stampa. Van Gogh non se la sente di «inventare» un Cristo moderno come aveva fatto Paul Gauguin, con il quale infatti aveva avuto sulla questione, nel 1889, una feroce polemica a proposito del suo Cristo nell’orto degli ulivi. Van Gogh invece, come seguito della piccola Deposizione, strinse la sua riflessione sul contesto: una cava che simboleggiava l’ingresso al Sepolcro, tralasciando le figure di Cristo e della Madre. «Si tratta di un’opera bellissima, grandiosa», scrisse orgogliosamente a Theo. Cristo era quindi restituito e «rappresentato» attraverso le drammatiche scheggiature della natura fustigata dal mistral.
Chi ha portato alle estreme conseguenze formali e logiche questa consapevolezza di Van Gogh è stato nel Novecento Lucio Fontana. Che è presente in mostra con una bellissima Crocefissione in ceramica ma che sempre nel saggio della Sebregondi viene richiamato a proposito di una serie di opere ben più epocali, come la serie sulla Fine di Dio. Il tema è ancora quello dell’irrapresentabilità. Dell’impossibilità di lavorare replicando immagini di una storia passata. «Dio è invisibile. Dio è inconcepibile», scrive Fontana, saltando tutta la dialettica tra realismo e astrattismo, di cui c’è un segnale in mostra nel confronto tra le Crocifissioni di Vedova e di Guttuso.
A proposito di «irrapresentabilità», nell’arco temporale indicato dai curatori sarebbe rientrato anche Francis Bacon: il suo primo capolavoro, il Trittico con le figure ai piedi della Croce, è infatti del 1944. Escluderlo è stata una scelta magari conservatrice ma anche saggia: infatti la sua presenza avrebbe fatto saltare il banco. Con Bacon l’iconografia cristiana, in forma di clamoroso e quasi insopportabile scandalo, era tornata a generare, dal suo interno, un’esperienza radicalmente inedita: pittura capace di farsi fisicamente carne, seppur carne crocefissa e accecata dalla Storia; carne in lotta con una sorta di irriducibilità di Dio.