In via dei Lucani 47, a Roma nel quartiere di San Lorenzo, ha sede noMade, studio di progettazione e allestimento di mostre d’arte e collettivo di artisti e ricercatori poliedrici di cui Fabio Pennacchia e Lea Walter sono il cuore pulsante.

A loro due la parola
Fabio: «Ho fatto studi di storia dell’arte, mi sono formato in bottega, sono di Sonnino provincia di Latina, ho 37 anni. Da 15 anni circa mi occupo di arte sia a livello lavorativo che creativo. Faccio delle istallazioni un po’ scultoree mirando al mimetismo o alla leggerezza, sempre spingendo al massimo la percezione delle forme.
Ultimamente a Roma, ai Mercati di Traiano per il progetto Live Museum Live Change ho presentato un lavoro che includeva la presenza di un essere vivente, una pianta, una vite. Inserire piante all’interno di opere mi interessa molto perché in qualche modo la natura prende e prenderà molto più spazio nel futuro dentro i nostri ambienti. Questa istallazione è un pendolo con un vaso che contiene la vite, messa nelle condizioni più estreme per vedere come trovi soluzioni per svilupparsi lo stesso. Lo sta facendo egregiamente».

Lea: «Ho 35 anni, papà tedesco e mamma italiana calabrese. Di formazione sono psicologa e arte-terapeuta. Applico la psicologia all’arte e l’arte alla psicologia con i pazienti che seguo utilizzando anche medium artistici, teatro, danza, poesia. Fin dai tempi dell’università, che ho fatto a Roma, in Spagna e in Argentina, ho praticato teatro e danza, in particolare una danza tradizionale del Senegal che si chiama Sabar. Ho viaggiato parecchio in Africa occidentale sia per creazioni danza che di ricerca etnografica e di psicologia transculturale…e voilà sono nata a Parigi, cresciuta lì fino ai 12 anni, poi sono venuta Roma, tornata a Parigi, quindi di nuovo a Roma e nel 2016 incontrando Fabio e altri artisti che gravitavano attorno allo Studio noMade abbiamo deciso di mettere un po’ insieme le cose e anche di formarci insieme. Adesso sono in un master di Arti Performative e Spazi Comunitari organizzato dal Palaexpo e dalla facoltà di Architettura dell’Università Roma Tre.

Come è nata noMade?
L’idea del collettivo è nata insieme a quella dello studio, che è stato il fulcro attorno a cui abbiamo messo insieme le nostre virtù artistiche, con l’idea di fondare un gruppo che potesse essere allo stesso tempo lavorativo e creativo. Abbiamo trovato sotto il nome ambivalente noMade un cappello per esprimere sia la parte di ricerca che avviene quasi sempre nei territori, sia la parte creativa, opere d’arte che non produciamo in un modo seriale, produciamo pezzi unici.

Quanti siete nel collettivo NoMade?
Non c’è un numero fisso, il nucleo siamo noi due, poi a seconda dei progetti che ci propongono o che noi proponiamo entrano altre persone.

Che storia ha lo studio?
L’ho trovato nel 2012. Vivevo a Torpignattara ma avevo bisogno di un laboratorio dove portare gli attrezzi..

Hai vissuto a lungo a Torpignattara?
Non molto, solo un inverno, il resto del tempo stavo perlopiù a Trastevere nella zona dove frequentavo la bottega dell’artista dove mi sono formato, Maurizio Mochetti in via della Lungara.
Sono venuto a Roma per ragioni di studio e con la volontà di imparare a bottega da un artista. Era il 2004/5, ho fatto tre anni di università, poi ho trovato lavoro nello studio di questo scultore e dopo 4-5 anni ho sentito l’esigenza di aprire uno studio tutto mio. Lo studio è nato grazie alle mie attività collaterali, la scenotecnica ma soprattutto gli allestimenti d’arte. In un viaggio in Bolivia ricordo di aver scritto con dei sassi la parola «nomade» in un altopiano a San Pedro de Atacama, poco dopo il confine col Cile, e lì è nata l’idea di fondare studi noMade in varie parti del mondo, usando come simbolo una lente d’ingrandimento, che ha rappresentato un’opera che ho portato avanti per più di qualche anno. Con altri artisti ho stipulato un accordo, soprattutto in Sudamerica, per creare una rete di laboratori noMade nei quali gli artisti possano trovare ospitalità e quello di cui hanno bisogno anche a migliaia di km da casa. È una rete di amicizie e di conoscenze, non l’abbiamo mai formalizzata. Il progetto Enhanced Vision mostra le installazioni con questa lente in ogni luogo che si è reso disponibile all’accordo di reciprocità noMade. È una lente di 6 cm di diametro appesa con tre fili di nylon quasi invisibili.

Lo studio di San Lorenzo è quindi uno dei punti di questa rete…
Sì, abbiamo attivato la nostra stazione di posta, così come l’abbiamo chiamata, dove abbiamo creato eventi, delle mostre, accogliendo artisti da vari paesi.

Come funziona?
Di volta in volta valutiamo le proposte di chi ci chiede lo spazio per ultimare un lavoro, o per mostrarlo. In generale tendiamo a fare progetti con più persone, il collettivo noMade è aperto a nuove collaborazioni.

Che dimensioni ha lo spazio di San Lorenzo?
Sono più o meno 300 metri quadri, su due livelli, nella parte superiore c’è lo studio, lavorazione e progettazione, di sotto è più laboratorio, con macchine per lavorare il legno, il ferro, vari materiali che si mettono a disposizione degli artisti che vengono.
Il collettivo noMade è in parte lavoro artistico, lo studio noMade invece è un gruppo di lavoro che si occupa di allestimenti d’arte. Questa è la parte che economicamente sostiene il lavoro artistico. Abbiamo lavorato a Roma per il Maxi, ultimamente con il Macro a Porta Pia. In un tour in Sudamerica abbiamo lavorato per molti istituti culturali tra cui l’Istituto italo latino americano, l’Iila che sta facendo una grande mostra sui Cammini Inca e noMade l’ha allestita al Museo civico di tradizioni popolari all’Eur. L’Unesco ha eletto i Cammini Inca come patrimonio dell’umanità. Abbiamo collaborato anche con l’Istituto Cervantes, con l’Accademia d’arte americana, abbiamo vari clienti fissi e riusciamo a fornire soluzioni per mettere in mostra le idee.

Riguardo alla vostra attività più strettamente artistica…
Abbiamo iniziato con il progetto Arberia per la Biennale per giovani creatori sotto i 35 anni. Ogni volta si svolge in un luogo diverso del Mediterraneo, e nel 2016 ci hanno invitato all’edizione in Albania, a Tirana. e visto che nello studio c’erano anche altri artisti di passaggio con cui ci trovavamo bene, ci siamo detti invece di presentare un’opera, un oggetto X che mandiamo lì e la gente lo guarda e se ne va, proviamo a presentare insieme qualcosa più performativo, più coinvolgente, che ci permetta anche di andare là e stare un po’. Da lì è nato il primo lavoro del collettivo noMade. Il tema della biennale era sulla casa, come rifugio di sogni, come riparo, radice… e allora visto che era in Albania abbiamo deciso di fare un lavoro sugli arbëreshë, gli albanesi d’Italia, comunità che stanno principalmente nel sud d’Italia. Siamo andati un po’ a esplorare questa nazione che loro chiamano Arberia ma che non ha confini territoriali, è una nazione ideale unita da una stessa lingua.
In Sicilia c’è una grande comunità a Piana degli Albanesi, comune della città metropolitana di Palermo, altre sono soprattutto in Calabria, un po’ in Puglia, qualcosa in Abruzzo e Molise, in tutto sono una cinquantina di comuni in Italia. Noi siamo andati principalmente nei comuni nella provincia di Cosenza, che sono quelli più numerosi e a Lungro dove c’è il loro centro spirituale e religioso, chiesa ortodossa di rito bizantino. Inizialmente il lavoro consiste nell’esplorare il territorio, fare interviste, incontrare persone, registrare in audio e video.
Siamo andati alla ricerca di persone inerenti alla cultura, alla musica, alla poesia che potevano arricchire la nostra ricerca.

Il risultato finale?
Abbiamo raccolto anche tanto materiale d’archivio, video, super8 e da tutto questo abbiamo creato una drammaturgia, una performance teatrale ad occhi chiusi. Si definisce teatro sensoriale e ci unisce anche come collettivo, perché ci siamo formati insieme nel 2016 con Enrique Vargas, il precursore del teatro sensoriale. È colombiano ma vive a Barcellona dove ha la sua compagnia, e proprio perché eravamo freschi di questa esperienza con il Teatro de los Sentidos abbiamo proposto una drammaturgia sensoriale in un tendone che replicava un po’ le gonne delle donne arbëreshë, grandi gonne con colori supercangianti, e quindi era un po’ come se entravi dentro una gonna. L’abbiamo chiamata Casa Arberia, montata nel parco di Tirana. Era maggio quindi bel tempo, e la gente, una persona per volta bendata entrava in questo tendone e incontrava vari personaggi, vari attori che raccontavano la storia degli arbëreshë, scappati in Italia nel 14° secolo per sfuggire all’avanzata dell’impero ottomano.

Senza vederli..
Sentivano solo le voci, in lingua albanese – con noi c’era anche un videomaker di origini albanese venuto con noi in Arberia. Ci sembrava interessante parlare di questa storia, di una migrazione molto antica che riguardava il Mediterraneo, che può dare indicazioni su quello che potrà essere tra 100-200 anni la situazione delle comunità migranti che stanno arrivando oggi. Allora furono create condizioni per accoglierle, sono stati scelti dei luoghi che erano stati abbandonati durante la peste del 1300. Vedere come l’Italia aveva creato le condizioni per accoglierli era interessante rispetto alla situazione attuale. Ma in generale è un lavoro che ci interessa in rapporto alle nostre radici, la tradizione, e anche un po’ una risposta all’arte contemporanea che ancora oggi vede spesso tutta la parte che chiamiamo folklore, conoscenza popolare, come qualcosa di diverso. C’è ancora uno iato superforte tra l’arte e la cultura contemporanea «alta» e la cultura popolare. Come collettivo noMade il nostro obiettivo è riunire queste due realtà, svelare tracce contemporanee che possiamo ritrovare in una cultura popolare che stiamo perdendo.

Altre vostre performance di teatro sensoriale?
La tecnica artistica che abbiamo usato, il teatro sensoriale, è un modo per fare arte visiva senza vista, perché è tutto molto immaginato dai visitatori, per cui è molto più forte se vogliamo l’esperienza del momento, i secondi, i minuti passati nell’attraversare l’ambiente, e questo ci permette di unire tutte le arti, c’è la parte audio, quella tattile, olfattiva, a seconda dell’ambiente che vogliamo creare prepariamo dei profumi ad hoc con piante, olii essenziali.
Abbiamo dei diffusori, o può essere che mettiamo un profumo in un oggetto che poi portiamo al naso della persona, o ancora sui tessuti di cui sono fatti i corridoi, le stanze, o la tenda a Tirana. Poi magari c’è un momento in cui serve uno specifico odore, di limone per esempio, e allora prendiamo un vero limone.

Vi è capitato di usare anche odori sgradevoli?
Abbiamo usato anche cose organiche che producono odori non propriamente gradevoli…

Cacca?
No la cacca no, ma quando al Funaro di Pistoia abbiamo collaborato con Vargas alla rimessa in scena dopo 20 anni del suo spettacolo il Filo d’Arianna, sul minotauro lui aveva messo terra, paglia e cacca di cavallo.
Arberia l’abbiamo rimesso in scena due volte a Tirana, nel parco del lago al centro della città e nel museo nazionale. In Italia nelle comunità arbëreshë, a Roma nel Palazzo delle Esposizioni, a Corigliano in Calabria che è il paese principale intorno a varie comunità arbëreshë, quindi era interessante perché sussiste ancora un po’ di razzismo tra le comunità arbëreshë e quelle latine, noi italiani siamo chiamati i latini da loro, e ancora dopo 500 anni c’è un po’ reciproca diffidenza.

Altri lavori?
A Taranto con i bambini della città vecchia sui loro sogni. Una parte si svolgeva in una tenda che avevamo montato in una piazzetta e il gioco consisteva in una pesca al tesoro. Nella tenda camminavano bendati sulla terra di diversi tipi di suolo, terra, sabbia, argilla e poi disegnavano a occhi chiusi quello che avrebbero voluto nella loro città. Seguendo una grossa fune andavano da Fabio che era il fabbricante di sogni e gli consegnavano dei piccoli oggetti che avevano pescato durante la pesca al tesoro e Fabio li incapsulava in lenti che venivano chiuse, saldate e questa è diventata l’istallazione, abbiamo appesi i loro sogni nel cortile del tribunale minorile. C’è stata anche la produzione di un libro dattiloscritto perché quando arrivavano da me mi dettavano il loro sogno che aggiungevo al loro disegno.

Che età avevano i bambini?
Dai 3 ai 12-13 anni più o meno.

I sogni che vi hanno più colpito?
Mi ricordo uno che diceva vorrei che tutto fosse gratis, oppure che i palazzi fossero di cioccolato. Il più inquietante quello di un bambino tutto pacioccone e carino che sognava di avere una statua di se stesso al centro della piazza della fontana e il giorno di San Giuseppe dovevano sparare due cannoni a salve in suo onore con tutta la comunità presente. Mi ricordo poi una bambina che desiderava il mare senza fine…abbiamo inteso che era forse senza quei massi che si mettono davanti alle spiagge per evitare l’erosione.
A Lecce e Brindisi abbiamo lavorato con i migranti. Era un progetto che ci aveva commissionato un’agenzia che si occupa di progetti culturali per i Comuni, un progetto su migranti e musei, come aprire le porte dei musei ai nuovi cittadini di Lecce e di Brindisi, come attirarli.

Come venite invitati?
Siamo noi che dobbiamo proporre un progetto. Nel caso di Palermo avevamo fatto un progetto in collaborazione con un gruppo olandese e un collettivo siciliano che ha occupato un teatro nell’ex Fiera del Mediterraneo, ora diventato hub vaccinale.
Un’altra attività che ci piace è il teatro in natura, fuori da musei e gallerie. Ci siamo formati insieme a Sista Bramini, una regista che fa teatro in natura da moltissimi anni in Italia. Abbiamo fatto un lavoro su Circe al Circeo che è andato molto bene. Anche lì invitavamo la gente sempre a occhi bendati a fare un percorso, c’erano degli attori in mezzo alla foresta che raccontavano la storia di Circe e li facevano esperire la metamorfosi nel loro animale modellando della creta, e c’era musica con una violinista. Venivano fuori statuette bellissime che Fabio raccoglieva nei panni di Tiresia. Modellare la creta bendati è molto più facile di quanto si creda, le mani hanno una memoria, per questo ci piace bendare gli occhi, a volte la vista ci limita l’immaginario, invece lasciare altri sensi esprimersi può rendere più folle il risultato. Il nostro prossimo impegno saranno due passeggiate poetiche al Circeo, questa volta collaboriamo anche con un fotografo, Gianmaria De Luca, con cui abbiamo creato come ultima stazione della passeggiata una specie di camera stenopeica dentro una torretta napoleonica. È una camera oscura con un forellino a una parete e la luce che attraversa quel foro proietta sulla parete opposta l’immagine riflessa al contrario di quello che c’è all’esterno. La usava anche Caravaggio e molti altri pittori, e così funziona la macchina fotografica.

Il 15 e il 16 maggio per le «Passeggiate poetiche» organizzate dal Parco Nazionale del Circeo, porteremo un progetto che abbiamo chiamato l’Altro Passo. L’idea è proporre un modo un po’ diverso di attraversare la natura dando delle indicazioni, dei suggerimenti su come camminare, come osservare, sempre in questa ottica sensoriale, per avvicinarsi a una condizione più animale, più selvatica. Il filo narrativo sarà una favola pubblicata a ottobre da Einaudi, L’Assemblea degli animali di un anonimo che si firma Filelfo. Dopo il grande incendio in Australia dove sono morti milioni di animali, racconta che gli animali si riuniscono e decidono cosa fare con l’uomo.