«Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì». Questa fulminante frase del fulminante scrittore guatemalteco Augusto Monterroso, sapida di umorismo e suspense ancestrale nel situare la perturbante presenza preistorica nel contemporaneo, potrebbe essere un valido esergo alla mostra Préhistoire Une énigme moderne, in corso al Centre Pompidou di Parigi fino al 16 settembre. Infatti i curatori Cécile Debray, Rémi Labrusse e Maria Stavrinaki presentano un lavoro di ricerca che potremmo definire a palinsesto, dove la costruzione della conoscenza preistorica – che dal suo esordio intorno al 1860 è foriera di sempre nuove scoperte e adattamenti del sapere – si scrive e riscrive sulla pelle dell’arte moderna fino ai giorni nostri, venendo così a configurarsi quale originaria presenza enigmatica. Qualcosa che in nuce è magnificamente sintetizzato nel buio vestibolo della mostra, dove un cranio di Homo sapiens di ventottomila anni or sono viene messo in prospettiva con la rappresentazione del tempo a strati di Paul Klee (Die Zeit, 1933).
E dello spessore del tempo analizzato attraverso gli strati della terra si interessa Cézanne quando osserva il suo tema prediletto, la Sainte-Victoire, dall’angolazione stratigrafica delle cave di Bibémus. Come se la montagna-dinosauro venisse fuori da una di quelle faglie antidiluviane, Cézanne è attento alle indicazioni e alle nuove tecniche di scavo che intorno al 1895 in quei luoghi sta conducendo l’amico archeologo e geologo Antoine-Fortuné Marion. Sulle orme delle origini che di sé permea ed estenua tutta una ricerca scientifica, Cézanne si autodichiara «primitivo di un’arte nuova», e la sua pittura si attesta come primevo sguardo sul mondo. Mondo sulla cui superficie, come risputati dalla notte dei tempi, vengono via via riemergendo i resti di più di cinquecento milioni di anni, scomparsi ancor prima della comparsa degli ominidi.
Già nella seconda metà dell’Ottocento le esposizioni universali affiancano alle produzioni della tecnica, sempre più emancipate dall’homo faber, le riproduzioni di dinosauri e le testimonianze fossili. Si attesta allora la doppia alienazione dell’uomo moderno, rispetto alla propria opera, che è divenuta una seconda natura meccanizzata, e rispetto alla propria origine, reperto di un tempo sepolto. Ma questa fine, che eccede incommensurabilmente anche la distruzione della Prima Guerra mondiale, stimola una certa metafisica minerale di de Chirico, gli assemblaggi archetipici di Savinio, il glaciale surrealismo di Max Ernst, fino alle astrazioni figurative del più tardo Graham Sutherland. E ci porta dritti al cuore di alcune delle rappresentazioni più allucinate, apocalittiche e potenti della mostra, le gouache dell’aristocratico biologo russo Eugène Gabritschevsky nel tempo del suo internamento in manicomio.
Le avanguardie artistiche sentono l’esigenza di ripartire da un grado-zero della figurazione. Non si ha bisogno di imitare la bellezza idealizzante della natura à la Winckelmann, quanto di tendere per alcuni a un’idea più originaria dell’uomo. Dalle cavità delle grotte ai piedi dei Pirenei sorge allora una nuova Venere, quella dei meandri del Paleolitico superiore, scoperta il 9 agosto del 1922 da René e Suzanne de Saint-Périer. Ricavata da una zanna di mammut, la Venere di Lespugue è una stilizzata figura femminile dalla testa senza viso e dalle gambe senza piedi, con grandi seni e immenso ventre intagliati in quindici centimetri di una grazia aliena eppure così intimamente prossima. La fascinazione per questo simbolo immortale di fertilità ha fecondato l’immaginazione di molti artisti, tra cui Giacometti e Picasso che ne possiedono riproduzioni nei loro studi. E ha rimescolato il rapporto uomo-animale portando alle figure ittio-muliebri delle Anthropométrie-ANT 84 (1960) di Yves Klein. Così anche i graffiti paleolitici divengono per Brassaï un modo nuovo di guardare ai graffiti metropolitani di Parigi, e i reperti di utensili da caccia catalogati in vetrine di musei archeologici sono l’occasione per Oldenburg di cercare tra i rifiuti newyorkesi dei frammenti a forma di armi come ritrovati da incasellare in improbabili tassonomie post-storiche (vedi Ray Gun Wing, 1961-’77).
Nel 1955 Bataille scrive il suo celebre libro sulle Grotte di Lascaux, scoperte circa quindici anni prima (La peinture préhistorique. Lascaux, ou la naissance de l’art). Per lui la rappresentazione degli animali sulle pareti delle caverne è un punto di non ritorno per l’umanità, quello in cui essa si emancipa dalla condizione della bestia che sta «nel mondo come acqua nell’acqua». Alienato da quella sorta di armonia acquatica e vittima della presente minaccia nucleare, l’uomo sembra non avere scampo. Lisa Ponti parla nel 1949 dell’Ambiente spaziale a luce nera di Lucio Fontana come dei «primi graffiti dell’era atomica». Lo stesso farmacista archeologo e situazionista Pinot Gallizio, alla fine degli anni cinquanta, prima di presentare la sua Caverne de l’antimatière a Parigi, scrive al suo gallerista che «gli uomini moderni si trovano nella stessa condizione di terrore degli uomini del Paleolitico», e che lui tappezza le pareti della sua «caverna-scatola» con vernici industriali, come «un rifugio costruito per arginare l’angoscia di chi vive nella preistoria dell’era atomica». La caverna diviene allora per gli artisti metafora irradiante diversi sensi, da spazio di creazione a luogo di misteriose scoperte o protezione da catastrofi esteriori.
In mostra va sottolineata la presenza delle magnifiche riproduzioni scientifiche delle pitture rupestri in scala 1: 1 che l’etnologo tedesco Leo Frobenius (1873-1938) fa realizzare durante le sue missioni esplorative da copisti d’accademia debitamente formati. Artisti come Kirchner, Baumeister, Moore possiedono in biblioteca copie delle sue pubblicazioni. E le riviste d’arte associano spesso i fac-simile di Frobenius con le opere delle nuove generazioni. Segno evidente che l’interesse per la preistoria non è stato solo degli addetti ai lavori, ma parimenti e in modo del tutto peculiare degli artisti, come nel caso della scuola di Altamira fondata da Mathias Goeritz nel 1948. Dalle riprese dei manufatti del Neolitico da parte di vari esponenti della Land art al paradigma apocalittico delle odierne ricostruzioni di science-fiction, come bene dice la Stavrinaki, la preistoria attiva nel contemporaneo sempre nuove strutture, funzioni, gesti, processi simbolici comuni, reinventandoli continuamente.
In occasione di questa mostra sembra pertinente allora riaprire L’arte dell’uomo primordiale, una raccolta di saggi degli anni cinquanta di Emilio Villa sulla realtà e l’arte dell’uomo preistorico e sulla vita dell’immaginazione, curata da Aldo Tagliaferri nel 2005 per Abscondita. Non possiamo prescindere dalle folgoranti intuizioni etimologiche del nostro poeta studioso d’arte e di lingue morte quando con vigile e caustica presenza nel dibattito a lui contemporaneo sul ruolo della preistoria nel presente scrive: «La presa di contatto archeologizzante, verificatasi dopo la metà del secolo passato e nella prima del nostro, sarà stata il frutto di atteggiamenti estetici, poi di impulsi non chiariti, ma ha avuto certo questo compito: di avviare gli artisti, man mano, a caricarsi di una storia completamente diversa da quella comunemente descritta, e a inventare qualità inedite, più reali, maturando così il grado della propria coscienza e il sentimento della fondamentale unità dell’uomo».