Gianni Dessì in un ritratto fotografico di Ruggero Passeri

 

Queso testo di Gianni Dessì è stato letto online il 19-06-2020 all’interno dei «Discorsi della Crisi. Incontri in stato d’eccezione», ciclo di conferenze organizzate da Gaetano Lettieri, direttore
del Dipartimento di Storia, Antropologia, Religione, Arte e Spettacolo, Università La Sapienza. Qui pubblichiamo il testo stralciato: uscirà in forma integrale nel primo numero della rivista «Matter», Editore Tiburtini, che sarà presentato a Villa Medici il 19 ottobre.

Vorrei cominciare presentandomi… sono nato quasi alla metà del secolo scorso e più passa il tempo maggiore diventa il sentimento di una appartenenza.
Sono un artista, un uomo che ha fatto dell’arte la sua maniera di stare al mondo, per spiegarselo, interpretarlo, viverlo.
«L’arte della Crisi»: ho scelto questo titolo perché si presta a varie interpretazioni e considerazioni. Vorrei tentare di esemplificarne qualcuna.
Intanto quando noi diciamo «arte» cosa indichiamo? (forse bisognerebbe intenderci una volta per tutte…). Potremmo dire (e forse questa è una conclusione novecentesca) che è un’‘invenzione degli artisti’ che con il loro operare, con il loro fare, creano opere, ‘fatti’. Questi, tutti insieme, per ogni artista, vanno a costituire, a delineare, un’‘opera’ più in generale, con un suo senso particolare. D’altro canto ciò non vuol dire che questo operare non sia generato da un bisogno ‘sociale’. Sicuramente, ora, condivide con la merce lo stesso destino avuto nella nostra società, industriale prima, dei consumi poi, come anche in quella post-industriale, dove l’impegno maggiore è dato nell’indurre un bisogno più che nel soddisfare una necessità.
…Cosa vuol dire?…
La parola arte ha origine nella parola latina ARS che ha indicato per secoli il fare, l’attività dell’umano. Atti che giungevano a una conclusione, a un fine, a una risoluzione… andando ad affermarsi in quello che abbiamo chiamato un FATTO… un qualcosa che è lì davanti a noi, che ‘tocca terra’… (perdonate la metafora… meta-fisica e metà no!).
Forse potremmo dire meglio… arte è allora proprio l’atto stesso che si compie, un agire che trova il suo fine e diviene ‘cosa’. Questo il dramma (e noi sappiamo dall’etimo greco che questa parola sta per ‘azione’!).
Le opere sono lì, si mostrano, le vediamo e possiamo com-prenderle sia per quanto ci dicono (ma ricordiamo che nel caso della pittura, scultura e fotografia esse sono mute!) sia anche ‘scandalosamente’ nell’averle, possederle, comprarle… rivenderle!!!
L’oggetto si dà, si oggettivizza e appunto… testimonia…
…ne devono aver viste di cose!…
Plinio indicava l’origine della pittura in un moto sentimentale. Due amanti a convegno prima della partenza dell’uomo per una guerra. Lei cerca di distoglierlo, si affanna, lui resiste, lei è vinta… si scioglie l’ultimo abbraccio, quando… vedendo l’ombra di lui stagliarsi sul muro, repentinamente lei prende dal camino un tizzone spento e ne traccia la sagoma seguendone i contorni.
Lui va, l’immagine resta.
L’invenzione è molto bella e ci dice moltissimo sull’immagine… proiezione di luce, ombra… come sostitutivo, lenitivo, succedaneo di una perdita… consolazione, ma anche ci dice del desiderio e sensualità che ne sono all’origine e se vogliamo continuare… del congiungimento ma anche della sua impossibilità, ecc….
…Tanto ci unisce all’immagine ma molto anche ci separa…!
Separatezza dell’unità e confronto.
Potremmo dire che all’origine del linguaggio, qualsiasi linguaggio, c’è uno scarto, un vuoto costitutivo della relazione del soggetto con l’oggetto (forse proprio quella vertigine rappresenta il disegno di quella s che distingue l’uno dall’altro i due termini!) ed è proprio in quella frattura che l’opera fatta immagine, o meglio l’immagine fatta opera, estende il suo dominio più proprio.
È da qualche anno che insegno pittura in Accademia di Belle Arti, prima quella di Carrara ora quella di Frosinone. La lezione di pittura, riflettevo, non può prescindere dal comprendere quale è la lezione che la pittura ci consegna, oggi. La messa in immagine di un pensiero… di una visione… che è desiderio… immagine-azione… credo sia la vocazione più autentica a cui riferirsi, per essere in ascolto e verificarla attraverso una propedeutica che ha a che fare, prima di tutto, con il ‘saper vedere’… nel senso più pieno… per saper cogliere, distinguere – perché compresi, capiti nel loro andamento spaziale – i tratti che contornano le ‘cose’ (e non solo quelli fisici… in questo un principio di distinzione…) nell’insieme delle relazioni che instaurano tra di loro. Coordinare quindi l’osservazione su tutto questo con l’andamento della mano grazie al nostro cervello… questo è l’utile esercizio che il disegno dispiega nella visione. Poi c’è la luce, che è mobile, perché varia nel ‘tempo’ e segna vibrazioni, con quei suoi chiari e scuri sui vari contorni dandogli aria, luce, atmosfera, collocandoli quindi nello spazio che modula per masse, creando, come fanno i suoni, ritmo, che a sua volta con il colore, altro convitato, esalta componendo la ‘veduta’ che è un partire, un principio di realtà, un saper mettere IN-QUADRO ciò che è…. ( lo sappiamo tutti…), un far tornare i conti, e tutto allora può trovare posto nello spazio! Questo il disegno dal VERO. La Geo-metria, poi, sistematizza e dispiega lo spazio e può renderlo all’infinito… spingerlo oltre il limite e far posto, comporre… mettere insieme… oppure… se non il tutto almeno il ‘particolare’… il frammento … ri-comporre… oppure… fuori dal quadro… «al diavolo lui e la cornice!»… semplicemente si è… racconto… foto… video-azioni … comportamenti… questo e tanto d’altro e tutto insieme… Ora!
Questo la ‘pittura’!
…quando tutto è arte niente lo è…
Crisi: se andiamo a ricercare il suo significato originario scopriamo che viene dal greco (Krisis) che significa scelta, decisione… visto in questa prospettiva è impossibile non riconoscere a questo stato, che è forse, soprattutto, tempo di una attesa che si produce prima di trapassare in ‘azione’, precipitandola quindi nel suo dramma, uno dei più significativi snodi della ‘vitalita’ del comportamento umano. Tutta la storia allora è storia di questo divenire, e forse, l’arte della crisi potremmo intenderla come l’arte di ‘fare le scelte’, di compierle con tutto il peso, la gravità che questo comporta, grazie ai presupposti e significati che abbiamo visto.
Continuando ci chiederemo che cos’è che determina la necessità di fare una scelta… prendere una decisione?
È del tutto evidente che al nostro fare generico (ma vale anche per quello artistico) questa necessità si manifesta quando insorge e si presenta come dilemma… come un bivio. Si mostra quindi nell’interrogazione, quando appunto il piano raggiunto nell’equilibrio più o meno ordinato delle cose si trova a non essere più confacente alla situazione che stiamo vivendo, salta a causa di qualcosa che si produce, che interrompe l’ordine che avevamo dato o che avevamo ricevuto… e qualcosa accade, irrompe. Smotta. Scassa. A noi l’urgenza di ricostituire allora un assetto più o meno stabile che può permetterci di agire entro un sistema di relazioni pre-ordinate più o meno governate senza dover ogni volta scegliere e decidere (l’ideale di ogni società totalitaria come anche di ogni accademia è proprio la riproposizione dell’identico nel canone e l’eliminazione del conflitto). L’imprevisto, invece, quel qualcosa che non avevamo appunto visto, neppure pensato, arriva e produce la necessità di una scelta, di una decisione e impone una azione. È proprio questo non visto che preme, irrompe, a produrre la necessità della visione che è anche un pre-figurare e che il fare trova come immagine-azione… ed è tra l’altro proprio lì che fonda la sua ragione anche etica e civile.
Se continuiamo su questa strada e ci volgiamo all’arte, alla sua storia, questa tutta allora ci apparirà come un susseguirsi di scelte, decisioni, necessità che si sono ‘compiute’ in ‘fatti’, divenuti ‘cose’ e questo grazie al mettersi all’opera da parte di artisti che hanno reso sensibile, duttile e permeabile, calandovisi, il linguaggio. Come vedete quindi lo stato di crisi non è uno stato d’eccezione in arte, ma verrebbe da dire che ne è la condizione necessaria, è la parte più intima della sua identità, dove questa fonda la sua caratteristica di maggiore autenticità. Laddove non si produce regna stasi, immobilità e in definitiva sterilità e accademia… il linguaggio, qualsiasi linguaggio, smette di rappresentare e rappresentarci, inaridisce e tuttalpiù indica… diviene liso all’uso!
Ma cosa sanno gli artisti che altri non conoscono, che li identifica e li distingue? È un sapere ‘semplice’: conoscono il fare… ( e sanno come ricercare e favorire quell’imprevisto ma soprattutto lo sanno evocare e interrogare). Conoscono per dire in sintesi il come, il cosa e il quando. Il come può essere quell’insieme di capacità, di accorgimenti, strumenti, materie, per giungere a un fine che noi chiamiamo tecnica (ed è forse la cosa che sembra più semplice ma in realtà non lo è) e questo per ottenere una congruità tra dire e fare anche se di mezzo c’è sempre il proverbiale mare. Il quando è esattamente il momento che un cambiamento si impone nella sequenza delle cose e non si può più non fare. Ma è proprio grazie a questa urgenza che il fare deve inventare un suo come per dire il suo cosa che trova il suo quando. L’artista agisce attraverso la tecnica, lui non sa, lui è. Questo è come dire che non possiede un linguaggio, ma è nel linguaggio, è questo a possederlo. In altre parole non detta ma è dettato… si fa medium… diventa mezzo del mezzo… e questa è una vecchia storia, gli antichi l’avevano raccontata in molte maniere… e in fondo noi chiamiamo medium proprio il mezzo attraverso cui prende corpo l’opera. Qui si entra in un labirinto perché l’artista si specchia e si dissolve moltiplicandosi proprio come accade quando si è tra due specchi. L’artista è colui che fa ma è anche il primo a vedere, è su questa duplicità, su questo momento che fonda la sua crisi, la necessità di compiere scelte.
… E alle volte non sa più cosa fare!!!…
Vorrei ora dirvi, prendendomi tutta una libertà interpretativa che forse ha un riscontro solo nella mia fantasia e lo dichiaro in questo mio straparlare… a mio avviso, uno dei più begl’incipit della nostra letteratura, che a me è sempre risuonato… dice: «Un’idea, un’idea non sovviene, alla fatica de’ cantieri, mentre i sibilanti congegni degli atti trasformano in cose le cose e il lavoro è pieno di sudore e di polvere». È Gadda… un testo che da quando è stato scritto è stato ritenuto di difficile intendimento ma che da quando l’ho letto per la prima volta, oramai tanti anni fa, mi si è stampigliato nella memoria (è praticamente la sola cosa che conosco a memoria) e mi sembra dia di conto alla perfezione dell’atto creativo. Questo ve lo confesso con pudore e quasi non voglio spiegarmelo… ma l’inizio di un libro che esordisce con la mancanza di un’idea e che si affida ai sibilanti congegni degli atti, che trasformano le cose in cose e tutto è pieno di sudore e polvere, mi sembra chiami in primo piano l’affanno, lo sforzo, l’urgenza, l’invocazione affinché l’opera a cui ci si appresta giunga a trovare quel suono dei congegni (la techne, il lavoro sulle parole, il canto…) che unirà corpo (sudore) e la sua fine (polvere) nella visione (nel particolare… l’ampia visione…).
Questa quindi la chiamata, l’urgenza del mettersi all’opera che la crisi (la necessità delle scelte) impone anche in questi nostri giorni passati più o meno inoperosi a ri-vedere i nostri comportamenti e con questi le priorità del nostro vivere. Sappiamo tutti cosa non va e socialmente bisognerà pretendere una nuova fase… abbiamo bisogno di trovare un modo diverso di stare al mondo… non ho ricette da fornire… ma per iniziare forse bisognerebbe ripartire da un prestare attenzione ai sibilanti congegni degli atti e affidarsi al sentire, che non è affidarsi alle vaghezze ma porsi in quell’ascolto dove l’eco si forma e le cose si dispongono a rappresentarci perdendo la propria singolarità.