A distanza di mezzo secolo dall’apparizione dell’edizione einaudiana, curata da Gian Renzo Morteo e Guido Neri, viene approntata una nuova versione di Il teatro e il suo doppio (Dino Audino Editore, pp. 152, € 15,00), sull’onda recentissima della liberalizzazione dei testi di Antonin Artaud, scomparso nel 1948. Curata da Giuseppe Rocca, la nuova traduzione privilegia l’inclinazione a rapportarsi «con scrupolo addirittura tignoso (…) ai tic dell’autore», come si evince dalla prefazione, differenziandosi dall’eleganza formale che contrassegna la versione precedente, tesa sì ad agevolare la fruizione del testo ma non sempre sintonizzata sui «grovigli» semantici dell’originale. Nonostante l’apparato e la scelta dei brani siano meno contestualizzati rispetto alla princeps einaudiana, in cui figuravano scritti teorici riconducibili ai periodi dell’Atelier di Charles Dullin e, soprattutto, del Théâtre Alfred Jarry, la curatela si rivela pregevole, presentando un cappello introduttivo per ogni capitolo e concentrandosi, con l’eccezione di Il teatro di Séraphin, sui saggi che compongono questa sorta di protovangelo della teatrologia novecentesca, dalla cui costola nasceranno le sperimentazioni di Adamov, Grotowski, Brook, il Living Theatre, Carmelo Bene e la sua phoné. Influenza non circoscritta peraltro al solo ambito teatrale, qualora si consideri che il saggio Il teatro e la peste ispirò a Camus il romanzo La peste.
Originariamente apparso nel 1938 da Gallimard grazie all’interessamento di Jean Paulhan, Il teatro e il suo doppio è il tentativo di manifestare una serie di rivoluzionarie idee sul palcoscenico che presuppone un tipo di rappresentazione in cui, paradossalmente, il concetto di rappresentazione è bandito. Osserva Derrida: «Il teatro della crudeltà non è una rappresentazione. È la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile». Il teatro viene associato a grandi metafore universali come la peste, l’alchimia, la metafisica (tramite un dipinto di Luca di Leida) per approdare infine, sulla scorta dell’«atletismo affettivo», alla concezione archetipica della «crudeltà».
Il teatro occidentale deve anzitutto liberarsi da un insieme di convenzioni che l’hanno costretto in un cul-de-sac museificato, antropoformizzato, concepito pirandellianamente all’ombra di autore e linguaggio articolato. Artaud diversifica vari tipi di linguaggio, relegando il teatro psicologico, generalmente basato su dialoghi ormai stereotipati, in secondo piano rispetto allo spettacolo concepito sull’espressione dei segni, ispirata alla mimica balinese, scoperta all’Exposition Coloniale parigina del 1931. Il teatro di matrice psicologica, edificato sulla parola, ha cessato di assolvere al suo compito sociale, finendo per mortificarsi in un palese scimmiottamento della vita che si esaurisce in schemi gratuiti e sorpassati, dai quali è esautorata ogni idea di sacralità (vedi i continui richiami al totemismo). Questi segni si configurano come veri e propri geroglifici, il cui compito è quello di restituire «la ragione d’essere della magia e di quei riti di cui il teatro è semplicemente un riflesso».
Continua tuttavia a sussistere l’equivoco di fondo che tende a identificare l’opera teoretica di Artaud con un’interpretazione distorta della nozione di «crudeltà». Questo termine viene infatti quasi regolarmente usato a sproposito, quando addirittura non associato a un mondo sanguinario o dai tratti gratuitamente efferati. Artaud al riguardo era stato esplicito sin da quando aveva licenziato i suoi due manifesti programmatici (1932 e ’33). In una lettera indirizzata a Paulhan aveva precisato: «In questa Crudeltà non c’entra né il sadismo, né il sangue, almeno non in modo predominante. Non sono un cultore sistematico dell’orrore. Il termine crudeltà deve essere preso in senso ampio e non nel senso materiale e rapace che gli si presta solitamente. (…) Dal punto di vista spirituale, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta».
D’altro canto l’importanza di Artaud in ambito teatrale (Giuliano Zincone nella postfazione parla di «teatro totale») si deve delimitare soprattutto alla sua dimensione teorica, relegando in secondo piano le esperienze che lo videro protagonista sia come attore sia come regista, anche se non bisogna dimenticare l’impegno, alquanto variegato, profuso per le compagnie presso cui lavorava: dall’ideazione dei costumi al ruolo di suggeritore. L’unica pièce, tratta da Shelley e Stendhal, che Artaud riuscì ad allestire nel 1935 fu I Cenci (coadiuvato dagli amici Barrault, Blin e Balthus che concepì una scenografia ispirata alle carceri piranesiane) il cui insuccesso costituì lo smacco definitivo per le sue ambizioni di rinnovatore della scena, sulla scia di Appia, Craig e Mejerchol’d. Il teatro della crudeltà si trasformò irrimediabilmente in crudeltà del teatro, confinando il suo ideatore, per quasi un decennio, in manicomio. Qui recupererà una hybris intrecciata alla dimensione della cruauté, non di rado coincidente con gli aspetti radicali del suo pensiero (il cosiddetto «secondo teatro della crudeltà» nella definizione di Marco De Marinis), cadenzandola attraverso il «linguaggio della schizofrenia» coniato da Deleuze, impostato su glossolalie e una scatologia di derivazione escatologica. Il teatro si riduce a teatro anatomico: un corpo esecrato, privo di organi, dilaniato, come quello di Prometeo, dal becco di un’aquila scaturita da un insopportabile dolore.