A metà degli anni Venti del secolo scorso, raggiunge Mosca, «per studiare», un diciottenne meridionale di non comune bellezza. Proviene da Elizavetgrad, città ucraina appena ribattezzata Zinov’evsk in omaggio al primo presidente dell’Internazionale comunista (Zinov’ev, appunto), recando con sé per tutto bagaglio «un quaderno di poesie e la capacità di fare a meno di mangiare per due giorni di seguito». Si chiama Arsenij Tarkovskij. La sua famiglia porta le stigmate dell’intelligencija rivoluzionaria: il padre populista aveva scontato dieci anni di esilio in Siberia; il fratello maggiore era stato ucciso dai bianchi durante la guerra civile. Arsenij cresce maneggiando pistole, in un limbo nel quale è incerta la linea di confine tra gioco e combattimento, e «uscire di casa senza armi addosso era considerato tra noi sconveniente».

Già nel corso dei suoi vagabondaggi adolescenziali, avverte con chiarezza di «essere attraversato da parte a parte dall’asse terrestre», di essere cioè un poeta. Comincia così, con l’arrivo a Mosca e le burrasche ucraine nella mente, la storia di una delle più importanti voci liriche del Novecento russo. Figlio riottoso e accorato testimone del secolo breve, Tarkovskij ne porterà incise le peripezie. A rendergli omaggio in Italia provvede una nuova edizione dei suoi versi, Stelle tardive II Poesie disperse e album di immagini inedite, Giometti & Antonello, pp. 216, € 36,00) in un volume che è anche suggestivo album fotografico, e che conclude il progetto editoriale inaugurato nel 2017 con l’uscita del primo tomo di Stelle tardive: tutti i versi sono tradotti da Gario Zappi, cui si devono anche le versioni di alcune liriche di Tarkovskij, pubblicate da Scheiwiller nel 1989, l’anno della morte del poeta.

Opacità dell’esistenza
L’apprendistato letterario di Tarkovskij comincia nel 1925, all’interno dei Corsi Superiori Statali di Letteratura, sotto la guida premurosa del poeta e filologo Georgij Šengeli. Il giovane Arsenij predilige i modelli classici: Puškin, Baratynskij, Nekrasov, Blok. Estraneo allo sfrenato sperimentalismo promosso dalla corrente futurista, ricerca piuttosto una tonalità solenne, usa il metro regolare, procede con strofe ordinate e rime impeccabili. Tiene in altissima considerazione l’ibridazione di antico e moderno realizzata da Tristia del venerato Mandel’štam (il quale, però, non apprezza le prime prove poetiche del suo ammiratore). Nel 1963, da tutt’altra altezza, Tarkovskij traccerà nella lirica Poeta un sorprendente ritratto di Mandel’štam, intravisto negli anni Trenta mentre ritira l’onorario in una casa editrice «con le reverenze da ubriaco / di un vecchio clown con la bombetta», struggente esempio di «maestà da pezzente / e onore martoriato».

Con gli anni Tarkovskij impara a ospitare nelle sue poesie gli aspetti opachi e inappariscenti dell’esistenza. Nel conferire una tensione metafisica a cose e gesti abituali, non rinuncia tuttavia all’armonia classica della forma espressiva. Una tonalità quieta e meditativa imbriglia anche i versi più traboccanti di vitalità e di eros. A ogni spasimo nostalgico, a ogni grido di dolore viene assegnato un respiro regolare, una melodia che fa eco alle liriche di Lermontov e Baratynskij. Ma l’ininterrotto esercizio poetico di Tarkovskij avviene in sordina, nell’invisibilità del sottosuolo, mentre alla luce del giorno si dedica alacremente alle attività che gli consentono di sopravvivere. Le vie per procurarsi un pezzo di pane sono le solite: articoli per riviste e traduzioni letterarie.

Si ritrova così a collaborare alla rivista dei ferrotramvieri «Gudok» (La sirena), fianco a fianco con i migliori prosatori dell’epoca: Bulgakov, Oleša, Il’f e Petrov; ma saranno soprattutto le traduzioni di poesia a dargli da vivere e a garantirgli, poco alla volta, una posizione sociale non troppo emarginata. Tradurre sarà per Tarkovskij un ripiego e una croce, ma anche una valvola di sfogo e una delizia. Diventerà un eccellente e noto traghettatore di poeti georgiani, armeni, azeri, turkmeni.

Nel 1928, Tarkovskij sposa la sua compagna di studi, Marija Višnjakova, con la quale avrà presto due figli, Andrej e Marina. L’abbandono da parte di Arsenij, nel 1936, di questa donna fiera e volitiva, ma anche dei figli ancora molto piccoli, resterà una ferita mai rimarginata per tutti e quattro.

Al figlio Andrej – futuro regista cinematografico – Tarkovskij dedica nel 1934 versi che si riveleranno profetici: «mi è dato vivere con te, / entrare nei tuoi sogni / e specchiarmi nel tuo specchio». Saranno tanti i giochi di specchi tra Arsenij e Andrej il cinema del quale adotterà le atmosfere rarefatte della poesia paterna, la sua metafisica camuffata con gli abiti disadorni del quotidiano, la sua logica onirica, la sua etica, persino alcuni suoi temi (si pensi ai versi di Arsenij su Teofane il Greco, maestro di quell’Andrej Rublev al quale Andrej dedicherà un film memorabile). L’immagine della madre che piange, nel film Specchio, è un ricordo infantile di quel lontano abbandono, che Marija Višnjakova non fece pesare a nessuno: avrebbe accudito i figli inducendoli ad amare il padre e i suoi versi. Sempre in Specchio ascoltiamo la voce melodiosa, profonda e penetrante del padre Arsenij che legge alcune toccanti liriche d’amore, destinate tuttavia a una donna che non è la madre di Andrej. E ancora: il tema della donna lasciata, che in seguito si uccide per amore, trionfa nel celebre Solaris.

Nei primi mesi del 1941, Tarkovskij manda a Marina Cvetaeva, da poco rientrata nell’Urss, la sua traduzione del poeta turcmeno Kemine. Ha così inizio un rapporto dai contorni sfuggenti, di cui ci restano tuttavia sicuri indizi poetici. Cvetaeva, avendo sentito Tarkovskij leggere il suo Ho imbandito la tavola per sei, il 6 marzo 1941 gli risponde con una lirica disperata: «Non faccio che ripetere il primo verso / e correggerne una parola: / “Ho imbandito la tavola per sei” / ma hai dimenticato uno, il settimo». Lei, la settima, si lamenta per l’ingiusta esclusione. Si dà il caso che questa fu l’ultima poesia scritta da Cvetaeva: alla fine di agosto, si uccide. All’amica Tarkovskij dedicherà nel corso degli anni poesie che potrebbero formare una raccolta compiuta.

Nel pantheon nero
La guerra mondiale traccia una linea divisoria nella vita del poeta. Vi partecipa da volontario, come cronista dal fronte e redattore di un giornale per l’esercito. Alcuni soldati morti in battaglia portavano in tasca i ritagli di questo giornale con i suoi versi. In guerra Tarkovskij perde una gamba e, quando torna a casa, scopre che una vicina di casa si era scaldata per anni bruciando uno a uno i libri della sua inestimabile collezione di bibliofilo, quattromila volumi di edizioni originali, dall’Evgenij Onegin puškiniano fino alle tre celebri edizioni di Pietra di Mandel’štam.

Nel 1946, Tarkovskij sta finalmente per esordire con un volumetto di poesie. Si è già alle ultime bozze quando la casa editrice decide di distruggere le matrici del libro: una recensione interna relega l’autore nel «pantheon nero della poesia russa», accanto a «Achmatova, Gumilev, Mandel’štam e l’emigrante Chodasevich», giudicando i suoi versi «nocivi e pericolosi». Solo la breve stagione del «disgelo» post-staliniano permise a Tarkovskij di vedere stampato il suo primo volume di poesie, Prima della neve. Ironia della sorte, questo esordio tardivo, a cinquantacinque anni, nel 1962, coinciderà con quello del figlio, che nello stesso anno ricevette a Venezia il Leone d’oro per L’infanzia di Ivan.