Nel suo scintillante saggio titolato Poeti con storia e poeti senza storia, del 1933, Marina Cvetaeva dava dell’autore che più sentiva vicino per temperamento una definizione segnata dall’irrevocabilità: «Boris Pasternak è un poeta senza evoluzione. Ha cominciato immediatamente da Boris Pasternak, e non lo ha mai tradito». L’antitesi «con storia» versus «senza storia» viene sviluppata attraverso una serie di metafore: per Cvetaeva esistono poeti-freccia, irresistibilmente lanciati verso un bersaglio sconosciuto, e poeti-cerchio, chiusi in una particolare ossessione a loro nota da sempre; poeti-camminatori – Goethe e Puškin, su tutti – e poeti-stiliti; poeti-fiume in cui, avrebbe detto Eraclito, è impossibile immergersi due volte, e poeti-mare, dai quali il lettore pretende ripetizioni, non la continuazione di un discorso interrotto: «Il fiume lo ami perché è sempre diverso, il mare – perché è sempre lo stesso».

Non più tracce del caos
Pasternak è decisamente cerchio, stilita e mare, ossia poeta lirico situato al di fuori del divenire, arrivato al mondo non per apprendere attraverso l’esperienza empirica, bensì per rivelare. E l’oggetto della rivelazione di Pasternak – agli occhi di Cvetaeva che in quel preciso momento sfogliava le quasi cinquecento pagine in corpo piccolo della sua raccolta integrale Tutte le poesie – era certamente la natura, da lui inspirata sin dalla nascita, fino alla completa saturazione dei polmoni. Inevitabile che il poeta fosse costretto a espirare natura a ogni verso, a soggiacere, pur nell’inevitabile variare delle cadenze e dei temi, a un costante respiro lirico, a un tempo istintivo e prodigioso. Ciò che Cvetaeva però non poteva immaginare era quale innaturale torsione la realtà sovietica avrebbe imposto di lì a breve a «poeti senza Storia» come Anna Achmatova o lo stesso Pasternak; con quali indebite pressioni lo Stato avrebbe minato la loro fedeltà a se stessi. Per capire a che punto il giudizio da lei espresso su Pasternak si sarebbe rivelato erroneo, basta prendere in mano Sui treni del mattino, raccolta pubblicata nel 1943 e ora proposta da Passigli nella traduzione di Elisa Baglioni (pp. 187, e 19,50).

È decisamente un poeta diverso da quello che aveva parlato finora in italiano con il timbro di Angelo Ripellino, suo traduttore storico, il quale aveva privilegiato anzitutto le sillogi degli anni Venti, e quindi Mia sorella la vita (da lui descritta come «una delle gemme più splendide della lirica russa del secolo»), Temi e variazioni e Oltre le barriere (nella versione del 1929). Nella scelta dello slavista palermitano Pasternak esibiva tutta la sua ascendenza futurista, in linea con un giudizio critico formulato in maniera davvero inequivocabile: «…la parte più viva della sua opera è connessa con quella di Chlebnikov e di Majakovskij», scriveva nel 1957.

Soprattutto dal primo il poeta moscovita avrebbe tratto «il gusto degli incastri sonori e dei materiali grezzi, la sovrapposizione di superfici semantiche, la promiscuità lessicale, il brulichio delle metafore, la smania di frammettere ostacoli, perché diventi più ardua l’intelligenza del testo». Di tutto ciò restano solo echi nel Pasternak degli anni Quaranta che, in Sui treni del mattino, si piegherà al ritorno all’ordine imposto dalle contingenze politiche, interiorizzandolo – non sempre con successo – sotto forma di un inopinato desiderio di semplicità. Anche in componimenti pur significativi come I pini, tra i pochi successivi al 1941 tradotti da Ripellino e ovviamente riproposto da Baglioni, non c’è più traccia di quel caos originario da primo giorno della creazione che in Mia sorella la vita sembrava parlare direttamente in prima persona. Certo, anche al tardo Pasternak non è estraneo un sentimento di fusione panica con la natura («Ecco, immortali per un poco, / siamo entrati nel novero dei pini, / e dai mali, dalle epidemie / e dalla morte siamo liberi»), ma qui prevale un tono assertivo, una sorta di constatazione, là dove invece in liriche come Il tentativo di staccare l’anima, l’io del poeta si fondeva con l’ombra dell’amata e con i frammenti esplosi della realtà circostante fino a una totale indistinguibilità.

Non più esasperati grovigli tematici dunque, né immensi arsenali di metafore, né tantomeno quelle immagini eteroclite di una novità «strabiliante» che tanto entusiasmavano Ripellino: gli intrecci sincronici di motivi lasciano il posto a una nuova leggibilità e a una inedita ricerca di melodia che traspare evidente dalla versione italiana integrale. Baglioni, valida traduttrice di poeti russi contemporanei come Vsevolod Nekrasov, Michail Ajzenberg e Sergej Gandlevskij (editi da Transeuropa e da Passigli), opta qui per la maggior aderenza possibile all’ordito semantico dell’originale, con soluzioni talvolta efficaci nel riprodurne anche la trama fonetica. Così avviene per esempio nella strofa «Ora imbrunisce presto, / ma il firmamento equestre / dalle cinque è di guardia / alle plaghe, ai boschi e alle acque», dove l’assonanza «equestre-acque» si sforza di restituire la rima «cosmica» nebosvod-vod, in cui la «volta celeste» (nebosvod) contiene perfettamente le acque (vod).

Là dov’è possibile il confronto con la resa di Ripellino, si nota una maggior precisione di Baglioni nel tradurre alcune espressioni figurate (kogda na ulice ni zgi, «in strada non si vede a un palmo», quando invece nell’edizione Einaudi più volte ristampata si ha un evocativo «regnavano le tenebre» che però travisa il registro stilistico). A sua volta, tuttavia, la puntualità sconfina a volte in costrutti letterali un po’ faticosi (i bambini che leggono sul treno suburbano «come ingranaggi avviati»).

Banchetto funebre
Sarebbe stato interessante confrontare le scelte di entrambi i traduttori, se Ripellino avesse avuto la possibilità di affrontare una delle poesie più belle della raccolta, ossia l’epicedio in memoria di Marina Cvetaeva, datata 1943, e assente per ragioni politiche da Sui treni del mattino, visto che la poetessa morta suicida nell’agosto del 1941 rimase invisa alle autorità almeno fino ai primi anni Sessanta. Inserita dall’autore nel manoscritto da lui approntato nel 1956 per un’eventuale ristampa, questa poesia straziante e impubblicabile segna un parziale ritorno di Pasternak alle sue ardite invenzioni di un tempo, soprattutto nella strofa centrale, dove il poeta, messo da parte il senso di colpa per non aver saputo aiutare l’amica («Nel silenzio della tua dipartita / trapela un rimprovero inespresso»), inscena per lei un banchetto funebre «cosmico», immaginando di aggiungere alle tenebre della notte invernale uva passa e vino per ottenere la kut’ja, il dolce tradizionale consumato in occasione dei funerali ortodossi. Un omaggio sconsolato a colei che aveva amato la sua voce tanto da desiderarla sempre immutata nel tempo.