Alle dichiarazioni sono seguiti i fatti. E così a distanza di pochi giorni dall’attacco a Mpeketoni e nel vicino villaggio di Poromoko, nel Lamu – sulla costa al confine tra il Kenya e la Somalia – ieri almeno due uomini sono stati arrestati e interrogati perché ritenuti responsabili della morte di oltre 60 persone. Nonostante Al-Shabaab avesse rivendicato il suo diretto coinvolgimento nell’accaduto, il presidente del Kenya Uhuru Kenyatta aveva subito respinto in un messaggio alla nazione tali dichiarazioni e puntato il dito contro «reti politiche locali». Accuse che sembravano rivolte a Raila Odinga, suo rivale e principale sfidante alle presidenziali dello scorso anno, il quale ieri ha ribattuto definendole «ingiustificate e tali da compromettere le indagini».

Lo stesso Mombasa Republic Council (Mrc), un movimento separatista costiero, in risposta a Kenyatta aveva negato ogni suo coinvolgimento: «Il nostro ordine del giorno non è mai stato quello di uccidere innocenti» ha dichiarato Randu Nzai, segretario generale Mrc, aggiungendo: «Stiamo perseguendo mezzi legali per risolvere le nostre rimostranze, e la gente dovrebbe smetterla di trascinarci in questo fango». Le parole di Kenyatta suonano, secondo alcuni analisti, come il tentativo di distogliere l’attenzione dal fallimento del governo nella protezione dei civili dalle recenti ondate di violenza, e come reazione alle critiche crescenti del principale partito di opposizione che rimprovera all’attuale classe dirigente debolezza e incapacità di far fronte agli attacchi di Al-Shabaab.

Ma se da un lato puntare l’indice contro i rivali politici – definiti «mercanti d’odio» – potrebbe valere ad allentare la pressione sul governo, dall’altro una politicizzazione della situazione potrebbe minare la questione sicurezza a favore della minaccia terroristica – che rimane una realtà evidente – e a scapito delle popolazioni civili e dell’industria del turismo. Settore quest’ultimo che ha visto un forte declino a partire soprattutto dall’attacco al Westgate del 2013.