Tromperie più di un «adattamento» del romanzo di Philip Roth Deception (Inganno, Einaudi), è una sorta di «sovrimpressione» tra lo stesso regista e lo scrittore che Arnaud Desplechin ha indicato più volte come il suo maestro. Philip (Denis Podalydès) è, appunto, uno scrittore americano molto noto che si è installato a Londra insieme alla moglie (Anouk Grinberg). Ha un’amante (Léa Seydoux) che viene a trovarlo regolarmente nel suo studio, i due fanno l’amore, parlano molto, lei soprattutto del suo matrimonio infelice, lui ascolta, quasi che la vita della donna diventi lentamente materia letteraria – del resto ammette che ogni suo libro nasce da una donna. In una strana sospensione temporale tra le sparizioni e i ritorni di lei intorno all’uomo si materializzano altre figure femminili con cui ha avuto relazioni, una cara amica malata (Emmanuelle Devos); una sua studentessa molto brillante che si è fatta sopraffare dalla vita – o forse dagli amori sofferenti, compreso lui (Rebecca Marder); un’attrice cecoslovacca(Madalina Constantin). In  bilico tra la dimensione letteraria e l’esistenza che la nutre, fragile, incerto, egotico, terrorizzato dalla vecchiaia e dalla malattia, Philip , è accusato di mascolinità tossica in un processo quasi farsesco. Ma chi è quest’uomo davvero? Tromperie,uscirà in Italia il 21, Desplechin intanto ha terminato un altro film, Frère et Soeur – dato al prossimo festival di Cannes – «Lo sapremo solo alla conferenza» dice. «Stavo lavorando a Frère et Soeur quando è iniziato il lockdown. Non sapevo bene come procedere in quel progetto ma ho capito che potevo realizzarne un altro, che avevo in testa da almeno quindici anni, e che non riuscivo a affrontare: Tromperie. Grazie al lockdown si era prodotta una similitudine con la situazione di Roth chiuso nel suo ufficio dove trova una sorta di libertà grazie alla scrittura. Il senso del suo testo che continuava a sfuggirmi mi è allora diventato chiaro. Abbiamo girato in fretta, quattro settimane, con un piccolo budget» racconta Desplechin. Ci parliamo a Roma dove è ospite dei Rendez-vous del cinema francese.

Nei suoi film la scrittura è molto importante e non appesantisce mai la sostanza cinematografica. Qui la dimensione letteraria lavora sullo spazio della parola, intorno a quell’immaginazione che appartiene sempre a chi legge. Lei che immagine aveva in mente del testo?
Il libro di Roth somiglia a un saggio, le farò un esempio molto semplice: c’è un passaggio con un piccolo asterisco in cui si legge: «Ho una nuova cintura». È la donna che lo dice all’uomo o viceversa? Chi è che spoglia l’altro? L’amante inglese Philip o lui lei? Per un regista chiedersi come mostrare questo piccolo miracolo di scrittura, quale immagine produrre per farlo è una sfida magnifica, è come filmare un’epifania. All’improvviso mentre Léa spoglia Philip appare un’iride sul suo volto: ecco il miracolo, l’istante rubato al tempo, alla mortalità, alla fatalità. Credo che il lavoro del teatro e del cinema, sia pure in modo diverso, sia quello di trasformare le parole in azione.

La narrazione viene condotta dal personaggio dell’amante inglese, ma accade in realtà nella testa dello scrittore facendo apparire le donne che hanno attraversato la sua esistenza.
Per me Philip è al centro e al tempo stesso scompare lasciando posto ai personaggi femminili. Ho voluto iniziare con l’amante inglese perché anche se il libro raccoglie le storie di diverse donne è soprattutto la sua a prevalere. Mi sembra che tutte condividono una difficoltà di stare al mondo, le loro vite sono state ferite – nel caso del personaggio di Seydoux ha un marito che non ama e un figlio che forse non aveva voglia di avere. Nelle conversazioni con Philip riaffermano una loro presenza diventando le narratrici di se stesse – Léa Seydoux si definisce Omero. Il testo è stato rispettato alla lettera, in Roth mi piace che l’artista non si pone su un piedistallo, una caratteristica che ci ha guidati. Credo anche che in modo non politico o militante ogni personaggio affermi un empowerment, una conquista di consapevolezza che passa nel dolore. Come il personaggio di Léa Seydoux che alla fine ci appare più segnato ma ha preso possesso della sua vita. In questo senso il film mi fa pensare a una seduta di psicanalisi. O forse è che continuo a filmare il seguito di Casa di bambola di Ibsen

La figura della moglie non entra in questo universo.
Claire Bloom, che scriverà dopo la loro separazione un memoir molto duro contro Roth, Leaving a Doll’s House, reclama la sua infanzia, il lato giocoso della relazione che lui le nega perché è la moglie. E se con le altre donne sa essere disponibile e accogliente con lei è sempre poco aperto, al punto che la loro relazione diviene dimostrativa di come non funzionano i rapporti tra uomo e donna. Lei si ribella, e ha ragione, Anouk Grinberg è splendida nel dare corpo alla vertigine che vive, la paura della vecchiaia, quel suo ruolo che le pesa.

Questi fantasmi sembrano un po’ anche quelli maschili sul femminile.
Non voglio generalizzare o andare oltre il film. A Léa Seydoux ho chiesto non di interpretare un ruolo come in Roubaix une lumière (Roubaix, una luce nell’ombra) ma di dirmi cosa è essere una donna quando si sente troppo giovane o troppo vecchia, che significa essere una madre, volere un figlio o non volerlo. Io tutto questo lo avrei documentato. Le ho detto: «Vieni nel film per darmi notizie delle donne e io ti filmerò». Ora non so più cosa ho scelto io e cosa Léa, lei è geniale, sostiene interamente il film e ci ha fatto un dono meraviglioso nell’essere non un personaggio ma Léa Seydoux.

A proposito anche in «Roubaix Lumiere» c’è una cifra letteraria nel modo in cui i personaggi inventano se stessi.
La messinscena della parola è una questione molto importante, se penso a grandi registi come Scorsese e Bergman ciò che mi affascina in loro è quella capacità di trasformare la parola in azione. In un film letterario come è questo spesso mentre gli attori recitavano mi avvicinavo alla macchina da presa e mi chiudevo le orecchie guardando i loro volti; le parole in azione sono un miracolo, quando da ragazzino guardavo i film vedevo degli adulti parlare e mi sembrava fantastico anche senza capire.

Lei ama lavorare sempre con gli stessi attori, Mathieu Amalric, che è quasi un suo alter ego col pesonaggio di Zuckerman, Emmanuelle Devos, ora Léa Seydoux.
È molto importante per me avere una relazione confidenziale con gli attori, avviene solo in casi specifici, so che il dialogo che ho con Léa Seydoux sul cinema mi ha fatto crescere. Devos è un’attrice assoluta, con lei abbiamo un’intesa chimica, qualcosa di inesplicabile. Mathieu ha una capacità di abbracciare il ridicolo maschile che adoro; per un uomo al cinema il massimo è essere ridicolo e io adoro il suo modo di esserlo. Mi aiuta anche molto, quando una scena sembra impossibile da recitare so che lui potrà farlo.

E Denis Podalydès?
Cercavo un attore che fosse anche uno scrittore e lui lo è. Quando l’ho chiamato mi ha detto subito perché non lo chiedevo a Mathieu, io gli ho risposto: «Ma lui è Zuckerman, qui c’è Philip». Dall’inizio del film è una figura segnata dal pensiero della morte, ha una relazione con una donna molto più giovane e si chiede di continuo cosa rimarrà di lui una volta scomparso. Lo chiede a lei che alla domanda: «Cosa dirai di me?» risponde che «eri uno gentile», non un genio come lui sperava. Anche questa ragazza pensa alla morte, voleva suicidarsi, e mi piaceva trasformare questa drammaticità con dei toni di commedia.

È una caratteristica che ricorre nei suoi film la commedia pure di fronte a situazioni dolorose.
Mi piace mescolare i generi, qui si passa dallo spionaggio al melodramma, alla commedia anche coniugale. Ho cercato poi una dimensione fisica molto forte, a cominciare dal corpo maschile, era importante mostrarne la vulnerabilità.