Parigi, 1904. Il Salon d’Automne è alla sua seconda edizione: favori e intemperanze della critica possono decretare fortune fugaci o durature. È scoppiato il caso Cézanne, e l’anno dopo saranno i fauves a occupare il centro della scena. Fra i tanti artisti che cercano di affermarsi, c’è un inglese poco più che ventenne, che ha frequentato la Birmingham School of Art, una delle ultime roccaforti del movimento preraffaellita. Da qualche anno si è radicato a Montparnasse, nella comunità di espatriati anglofoni. Si chiama Maxwell Ashby Armfield e il dipinto che espone al Salon, una Faustine, riscuote un certo successo – quasi subito viene donata allo Stato francese e oggi è al Musée d’Orsay. Uno spasimante si è appostato dietro la dormeuse e sfiora la mano della donna, che puntualmente non lo degna di uno sguardo. L’atmosfera del salotto turco, piuttosto algida, si fa vibrante quando subentrano quei colori accesi che suonano acuti, in modo non distante dalle tele di Matisse e compagnia.
Il giovane si era formato leggendo Ruskin e ha tutte le intenzioni di votarsi a uno studio assiduo delle regole della composizione artistica, esplorando simmetrie, giochi di proporzioni e articolazioni di patterns: il tutto è ritrovato scavando nella miniera della storia. D’altronde per lui, come per tanti della sua generazione, fare arte significa credere di procurare un giovamento tangibile in chi guarda e quindi, per esteso, migliora la vita di tutti. Galvanizzato dai primi segni di interesse riscontrati a Parigi, Armfield affronta poi Londra, affittando uno studio a Holland Park. I ritratti che sforna in questo periodo sembrano ripetere, per interposta persona, la sua vicenda individuale. Ecco ragazzi appena sfiorati dalla malinconia, ma sicuri di voler spendere lunghe ore di lavoro in camere prese in affitto nelle metropoli europee, camuffate per l’occasione in studioli ideali. Qua e là giace isolato qualche gesso, tratto da un marmo quattrocentesco, o una riproduzione di un papiro egizio; immancabile è una stampa giapponese. Ciascuno si fabbrica su misura un luogo di raccoglimento.
Sant’Agostino, un menestrello
La condizione giovanile di Armfield è interrotta dal matrimonio con Constance Smedley, una suffragetta impegnata nella fondazione di club femminili, autrice di testi teatrali e racconti di ribellione: produzioni letterarie, convinzioni politiche liberali ed energia civile di lei andranno ad attorcigliarsi come rampicanti alla vita di lui. Nel 1909, marito e moglie si trasferiscono a Minchinhampton, un villaggio in pietra nella regione dei Cotswolds, dove sia Ernest Barnsley che Ernest Gimson si erano insediati, dopo aver progettato i loro cottages sulla scorta di quanto aveva fatto William Morris a Kelmscott. L’occupazione principale dei coniugi sembra essere un’animazione culturale a tutto spiano del Gloucestershire: si parte con la fondazione di una biblioteca e i primi gospel  cantati nei teatri, ma l’impegno sembra farsi più serio quando gli Armfield fondano nel 1915 una compagnia di attori, che porta in giro un repertorio estemporaneo di canti, balli e racconti popolari.

Fra i primi tentativi della coppia, si registra un Flower Book tutt’altro che enciclopedico: per i nasturzi o le rose, lei s’inventa delle fiabe dove i fiori prendono la parola, mentre lui risponde con delicati accompagnamenti visivi. In poco tempo Armfield dimostrerà di saper padroneggiare magistralmente il genere del libro illustrato. Le Confessioni di Sant’Agostino, pubblicate da Chatto & Windus nel 1909, risultano già luminose, anche per la convinta adesione dei coniugi alla Chiesa Scientista. Il vescovo di Ippona è un biondo menestrello tormentato dai dilemmi mondani dei pagani e si costruisce la sua Città di Dio fra deserti, pulpiti e scuole di retorica improvvisate all’aria aperta. L’editoria anglosassone sembra aver trovato una gallina dalle uova d’oro: mai una veduta del Foro era stata così spettrale, come nel Rome di Edward Hutton illustrato da Armfield, mai La Sirenetta di Andersen era stata così vicina alle aspettative di un pubblico di adulti e bambini desideroso di incantarsi ascoltando storie di fate e di maghi. Il ricorso alla pittura a tempera diventerà una formula costante, per confezionare quella moderna chiarezza di tono, in grado di liberare lo sguardo vittoriano del suo grigiore congenito.
Ma l’idillio dura più o meno mezzo decennio. «C’era solo un posto in cui nuove idee potevano essere benvenute: l’America», afferma la Smedley in Crusaders, libro di memorie pubblicato nel 1922. Anche a New York la prima azione è fondare un «universal travelling theater», che possa vivificare quello che nel Medioevo facevano i menestrelli. E quando Armfield vede i grattacieli li compara alle piramidi: gli sembrano i nuovi blocchi visivi che condizionano il pensiero formale moderno. È in America che può studiare il «metodo ‘perduto’ di disegno dei Greci», grazie anche alla lettura di un testo di un professore di Yale, Jay Hambidge, che aveva riscoperto la «simmetria dinamica degli antichi, sulla quale tutta la loro arte è costruita». E la verifica delle assonanze con le culture primitive è inarrestabile.
La lingua dei nativi Hopi e Navajo
La compagnia ferroviaria di Santa Fe propone all’artista di dipingere il paesaggio del Gran Canyon dell’Arizona, e in cambio offre i biglietti per il viaggio. Armfield è attratto dalle «cadenze liquide» della lingua dei nativi Hopi e Navajo e dalle geometrie variabili dei loro tappeti colorati. In Europa, dovrebbero essere conosciuti al pari dei vasi attici e delle stampe giapponesi, sostiene nel suo libro di memorie, An Artist in America (1925). Il punto più alto lo si raggiunge al Greek Theater di Berkeley, nel 1919, quando viene rappresentato il dramma religioso della Smedley: Miriam, sister of Moses, con i costumi e le scene ovviamente disegnati da Armfield. Forse quei due immaginarono a lungo un fregio vivente, parlante di conquiste sociali e amore per il prossimo, aulico e fumettistico al tempo stesso – e finalmente in California videro realizzato un loro sogno.
Il ritorno in Inghilterra, nel 1922, è segnato da ristrettezze economiche che dovettero perdurare. Respirando l’aria americana, si potevano recepire altri mantra, forti e chiari: ora Armfield denuncia la trappola di una civiltà che non ha niente da spartire con la provincia inglese, colta e umanitaria, da cui proviene e in cui ritorna. Dieci anni dopo il denaro è sempre meno e marito e moglie vanno in Cornovaglia. Nel 1941, alla morte della Smedley, Armfield è sempre più smarrito: si dedica alla teosofia e alle scienze occulte, disperdendo definitivamente ogni energia. Ma c’è ancora tempo per qualche altro dipinto memorabile, come This England: Portrait of an Owner, alla Tate. Una faccia di impettito industriale sta davanti alla sua fabbrica sfumacchiante, come ad annullare con il suo senso di proprietà tutto quel di fatato che poteva ancora immaginarsi. O come Homage to Jean Clouet, ritratto sospeso nel tempo svuotato degli anni quaranta: le speranze di proseguire una vita umanistica, ideale e rarefatta, si ripongono sempre più nel mito del Rinascimento.
Armfield muore nel 1972; né le mostre né il mercato hanno premiato questo artista totale, troppo teorico e artigiano per mutarsi in fenomeno facile e spendibile. Qualche omaggio postumo e un paio di articoli apparsi a fine anni ottanta sul “Journal of the Decorative Arts Society” bastano, per il momento, a garantirgli un minimo di profilo critico. E forse, va bene così: c’è chi preferisce essere ricordato senza troppi clamori.