Domani prendo l’autobus per Sokcho, verso il mio Overlook hotel vicino al Seoraksan Park, ai piedi di una cittadina di pescatori. Alla stazione degli autobus, nelle metropolitane, sono circondata da camere di sorveglianza e video esplicativi su come comportarsi in casi di emergenza, dal taglio pedagogico e rassicurante. Mi chiedo se la rabbia da queste parti, è repressa o è considerata un orpello indesiderabile. La calma piomba sui corpi chini sugli smartphone mentre i piedi restano abbandonati a sé stessi nelle Crocs con le spilline. I posti riservati a donne gravide e anziani sono intoccabili, anche se…Dai, ho visto gente di ogni tipo su quelle sedie, ma visto che non sono coreana faccio la brava e seguo le etichette sociali. Quando arrivo a Sokcho piove e trovo solo una signora al ristorante dell’albergo che mi molla due pannocchie bollite da mangiare e chiama il proprietario, molto meno infernale di Nicholson, che mi mostra la stanza dal neon fortissimo, tanto che uso solo la luce del bagno, inciampando tra gli zaini sparsi per terra. Si fa buio presto e in questi giorni di festa (Chuseok) i coreani sono in transito per il Paese.

Scalo una montagna di 800 metri, vedo cascate tra le foglie e le rocce, non ci sono ancora i colori dell’autunno e su tutto risplende il verde di fine estate. Annaspo mentre salgo le scale di metallo posate sul vuoto ma i coreani non sudano, si inerpicano con il loro golfino da serata in barca, mentre io trasudo il cotechino dei quattro precedenti capodanni. Misteri della natura. Conosco Irene, un’ olandese, che fa trekking con delle scarpe da tennis e poi pranziamo insieme, cucina coreana da trattoria. Ogni ristorante qui è diverso dagli altri: ci sono quelli con le posate sotto il tavolo, quelli in cui si ordina e poi chiamano il tuo numero, quelli con le posate su un mobile, quelli con il self-service di kimchi, quelli in cui il kimchi in qualche modo è già incorporato. Irene parte il giorno dopo, io resto ancora un po’; ho le gambe tritate dalla fatica ma il tempo è bello, l’Overlook è tranquillo, pulito e con abbondante acqua calda, gli arredi sono reduci, pure loro, dagli anni Ottanta. Non ho perso tempo nemmeno durante la pioggia, visitando il mercato del pesce di Sokcho, una cittadina piccola, di mare, dove ci sono altri stranieri in giro: è buffo come con gli occidentali ci si scambi occhiate di intesa, come se si facesse parte di una comunità esclusiva, un acquario di gente che nuota con lo zaino da campeggio. Gli occidentali, la mia tribù, persi in una lingua aliena, con lo zaino gonfio, le scarpette comode, ci incontriamo ai semafori e ci abbracciamo. «Quoque tu! Sai dove trovo una lavanderia a gettoni?»