Sono giorni poco felici questi che ci aspettano: vuoi per una campagna elettorale estenuante che si spera non si dilati al di là del voto di domenica 4 marzo, vuoi per la stretta di freddo, neve e gelo che da est sta attraversando l’Europa e il Belpaese. Ma non tutto si perde in questa sfibrante attesa quasi godottiana se si guarda all’assurda singolarità delle posizioni prese soprattutto da parte della politica presunta maggiore; anzi, in zone laterali della cultura e dello spettacolo italiano emergono molti segnali, incroci e incontri che, malgrado la debacle meteorologica, sembrano rinfrescare e aerare pensieri e parole, i cui significati spesso abusati come parole d’ordine ritrovano la loro ragion d’essere se stornati e riallocati ai margini di determinati contesti.
Ed ecco che termini come resilienza, comunità, casa, accoglienza, si riappropriano di un proprio peso specifico, leggero e alato che nemmeno il sudore appiccicaticcio delle assi di un palcoscenico, anche improvvisato, può far dimenticare. Da ciò deriva che – se il teatro italiano merita di avere alcune compagnie, alcuni attori e attrici, pure alcuni teatri e persino copioni – è questa la piattaforma sulla quale vale giocare i rischi e la pena di lavorare. Anche per la critica. Quest’ultima tra le categorie citate quella più a rischio se non di estinzione, almeno di trasformazione nella prospettiva di darsi, quando e definitivamente, alla cronaca. Di certo e in molti casi meglio della attuale riflessione, quando trova un ascolto maggiorenne e non nei nativi della «rete».
Ma chi non fa sconti è il Teatro delle Ariette, compagine emiliana, capeggiata da Paola Berselli e Stefano Pasquini, compagni anche nella vita, e con loro Maurizio Ferraresi, che da una fattoria dell’altipiano bolognese, in Valsamoggia, hanno creato un teatro, oggi anche stabile e regolarizzato nelle agibilità del Deposito Attrezzi, fatto di cibo e storie, per l’appunto «da mangiare», che non ha eguali in Italia. Con titoli che ne hanno creato un vero e proprio culto anche al di fuori dei confini come Teatro da mangiare?, Prima di Pasolini, Teatro di terra, L’estate. Fine, Sul tetto del mondo e ultimo presentato in anteprima a Bologna, Attorno ad un tavolo. A raccontare questa fiaba quotidiana, reale e più che venticinquennale, è un libro, Teatro delle Ariette. La vita attorno ad un tavolo, edito da Titivillus e curato da Massimo Marino, il loro più acuto interprete, che rimescola e aggiorna materiali di una precedente pubblicazione, e un progetto, Teatro delle Ariette. Terreni comuni: Natura del teatro, orchestrato, tra la citata novità di Attorno ad un tavolo, proiezioni, incontri e laboratori, per una quindicina di giorni nel capoluogo emiliano, dal 12 al 21 febbraio scorso, da Silvia Mei dell’Università di Bologna-Centro di Promozione Teatrale La Soffitta in collaborazione con Alliance Française.
A chiudere la cerneria del progetto, il convegno «Per un teatro irregolare» che in modo ospitante e informale ha consentito a registi, studiosi, poeti, direttori di teatro, soprattutto sodali e loro compagni di strada, come Armando Punzo, Giancarlo Sissa, Antonio Calbi, Cristina Valenti, Carlo Infante, Cristina Grande, Oliviero Ponte Di Pino e Francis Peduzzi, di glossare, senza filtri, la realtà delle Ariette; fondamentalmente in doppio paradosso ancora «irregolare» e in più supportata dai clip di Stefano Massari e dai video-fotografici di Stefano Vaja che hanno evidenziato le componenti di controllo autobiografico: essenziali a comprendere come il cibo sia il tramite con cui misurare la partecipazione dello spettatore allo spettacolo. Controcanto anticipato di questo vivo commentario sono le pagine del libro che, stratificato nel suo complesso editing di conversazioni, testi di spettacolo, regesti critici e teatrografia ragionata, alla lettura sembrano suonare un canto di libertà espressiva che salda letteratura e scena, pratica di vita pubblica e dolori privati, che in un certo qual modo sono la cifra consolidata del Teatro delle Ariette.