«Vengano tutti a vedere, non abbiamo niente da nascondere. Ma anche i paesi dell’Alba dovrebbero osservare le elezioni negli Stati uniti e quelle in Europa». Così, alla vigilia delle ultime elezioni in Bolivia, il presidente Evo Morales accoglieva gli osservatori internazionali e i giornalisti. E il 12 ottobre, il primo presidente indigeno veniva riconfermato per la terza volta alla presidenza con il 60% dei voti.

La tornata elettorale che ha interessato nel 2014 l’America latina ha peraltro confermato o portato al potere la sinistra, variamente modulata ma unita nella convinzione di non tornare a essere il «cortile di casa» degli Stati uniti. Una sinistra che ha accolto con speranza le parole pronunciate da Obama subito dopo la sua prima elezione, ma che ha presto dovuto ricredersi di fronte al golpe istituzionale in Honduras contro il presidente Manuel Zelaya (2009), alla destituzione di Fernando Lugo in Paraguay (2012), al perpetuarsi del blocco economico contro Cuba e alle continue ingerenze delle agenzie Usa denunciate dai governi progressisti ed esplose con il Datagate.

Obama ha deluso gli intellettuali latinoamericani su temi fondamentali: ha «bombardado sette paesi (più di Bush)», non ha soluzionato il dramma dei migranti alle frontiere, né fornito il necessario apporto sul cambiamento climatico… Ma d’altro canto – scrive il politologo argentino, Atilio Boron – al di là delle apparenze, negli Usa chi detiene il vero potere è il «complesso militare-industriale-finanziario», che non risponde né al presidente né tantomeno alla cittadinanza. Un sentimento d’impotenza e disincanto ha dunque portato alla disaffezione o al voto di protesta nei confronti dei democratici Usa, i quali, dall’epoca di Clinton, si trasformano negli artefici di politiche che aumentano la ricchezza e il potere di quelli che stanno in cima alla piramide.

E se pure la spinta proveniente dal voto «latino» può costituire un contrappeso, di certo il ritorno in tromba della destra nordamericana non darà sostegno al presidente Usa per affrontare alcune vicende dolenti come vorrebbero le sinistre latinoamericane: né all’interno per chiudere la famigerata Escuela de las Americas e trasformarla in una università della pace, né all’esterno.

Come risponderà ora Obama ai quattro editoriali del New York Times, l’ultimo dei quali pubblicato domenica scorsa? Il Nyt gli chiede di liberare i tre agenti cubani (in origine erano Los Cinco) detenuti negli Usa da 16 anni, e di consentire per quella via il ritorno a casa della spia Alan Gross, arrestato nel 2009 all’Avana.

L’editoriale critica anche la scelta delle agenzie Usa di inviare allo sbaraglio contractors privati come Gross e suggerisce la fine del «bloqueo». Un argomento usato contro Obama anche dalla sua avversaria interna, Hillary Clinton, non certo una colomba quanto a interventismo internazionale. I finanziamenti del Congresso alle agenzie Usa che intervengono «per difendere i diritti umani» foraggiando le destre oltranziste nei paesi invisi a Washington come Cuba e Venezuela sono però già stati aumentati e, nel clima attuale, di certo non subiranno decurtazioni.

Un’altra vicenda spinosa, che ha fatto vibrare le sinistre latinoamericane, è la battaglia tra l’Argentina di Cristina Kirchner e i fondi avvoltoio, supportati dalle potenti lobby nordamericane. Una grande vertenza internazionale che ha il suo fulcro nei tribunali di New York, dove il giudice Thomas Griesa supporta gli interessi degli speculatori che non hanno voluto rinegoziare il debito dopo il crack argentino del 2001, e che ora chiedono al governo Kirchner somme stratosferiche.

L’Argentina ha protestato con Obama per la nomina della lobbista Nancy Soderberg a presidente del Pidb e avrebbe voluto un suo intervento nella vicenda. Ma il presidente ha risposto lodando le qualità della funzionaria.