In un vecchio film del 1944, una versione in technicolor della favola di Alì Babà, María Montez gioca il ruolo consueto di esotica pin-up fra turbanti d’ordinanza e veli all’orientale, scelti per accendere – nel candore delle stoffe – i riflessi rossi dei celebri capelli. Non meno spettacolare è la grotta dei ladroni: basta guardare il trailer della pellicola per ritrovarsi, al pronunciamento della parola magica, in un ambiente di sfarzo surreale, sospeso fra le atmosfere dei set di Cocteau, gli allestimenti dell’atelier di Jacques Fath e l’eleganza sregolata di una casa patrizia in emergenza bellica.

Dal Victoria & Albert allo stesso Met

Con queste immagini di lusso favoloso nella mente, è difficile – per chi acceda alla Lehman Wing del Metropolitan Museum, dove è aperto The Silver Caesars A Renaissance Mystery (una seconda tappa sarà al Waddesdon Manor dalla prossima primavera) – resistere alla tentazione di sillabare un «apriti sesamo», di fronte allo spettacolo magnifico delle dodici tazze d’argento note agli studi come il servizio Aldobrandini, provenienti da istituzioni diverse fra cui il Victoria & Albert Museum di Londra, il Museo Lázaro Galdiano di Madrid, il Museo Nacional de Arte Antigua di Lisbona, lo stesso Met (oltre ad altre collezioni) e per la prima volta presentate assieme al pubblico.

Tuttavia, rispetto all’accumulo fiabesco di ricchezza dei predoni persiani o in confronto al mare d’oro dell’Uncle Scrooge di Carl Barks, quello che abbaglia il visitatore, all’ingresso in mostra, è il senso d’ordine, il rigore dell’istallazione chiusa nelle pareti strette di un’unica sala, le luci basse per far scintillare gli oggetti preziosi, focus dell’intero progetto.

Del resto – come suggerisce il titolo dell’evento – poco è noto sulle tazze Aldrobrandini: anonimo il loro committente, sconosciuto l’autore (o meglio, gli autori, ché l’esecuzione degli oggetti implica, visibilmente, l’intervento di mani disuguali). Mancano perfino i marchi intesi per regolare la produzione degli argenti e la commercializzazione delle varie leghe, consentendo al conoscitore di navigare in uno dei campi più difficili (e meno battuti) dalla letteratura storico-artistica consacrata all’epoca moderna.

I soli stemmi a comparire su metà dei pezzi sono infatti quelli della famiglia fiorentino-romana che ha tradizionalmente dato il proprio nome all’intero set; tuttavia nella casuale disposizione delle armi, nella stessa realizzazione degli scudi sormontati da un cappello cardinalizio tali interventi denunciano la necessità di una diversa origine mecenatesca e di un successivo passaggio di proprietà, siglato in maniera goffa e parziale.

Una simile puntualizzazione araldica non contraddice, è vero, le poche informazioni relative alla storia degli argenti rese di note recente da Stephanie Walker e pubblicate in catalogo: cioè la notizia secondo la quale il porporato Pietro Aldobrandini avrebbe acquistato sei delle tazze sul mercato milanese nel 1602 e l’inclusione del set completo nell’inventario dei beni del prelato, redatto appena un anno dopo.

Tuttavia le ricerche di Antonella Fabriani Rojas, confluite anch’esse nei saggi e nelle generose appendici del volume americano, hanno provato come già sul 1599 una metà del servizio fosse disponibile per l’acquisto sulla piazza orafa lombarda, testimoniando di una trattativa aperta con la corte di Mantova. Certo non stupisce che i «tazzoni imperiali» (questo il riferimento esatto al loro formato nel gergo specialistico del XVI secolo), alti circa quarantun centimetri e pesanti ognuno più di due chili e mezzo, attirassero le attenzioni di amateurs prestigiosi, lasciando traccia nelle registrazioni di agenti e uomini di fiducia: tuttavia, una circostanza siffatta allontana la soluzione del rebus costituito dalla loro vicenda collezionistica.

È un merito dunque dell’esposizione quello di avere convocato a New York tutti i pezzi della serie, dopo avere creato il giusto consenso fra i prestatori coinvolti, anche grazie alle giornate di studio organizzate nel giugno del 2014; ed è una virtuosa conseguenza di quel simposio se oggi le tazze – danneggiate nel corso del tempo, scomposte e ricomposte in un ordine non originale, integrate con risarcimenti immaginati dallo storicismo ottocentesco – hanno potuto ritrovare un’integrità, ordinate finalmente nel giusto incastro dei singoli segmenti (ogni argento è composto da sette parti, assemblate attraverso giunture nascoste).

La curatrice, Julia Siemon

Il maggiore pregio della mostra consiste però nell’avere affrontato con grande cura e scrupolo sistematico gli interrogativi avanzati dalle opere, riversando nei contributi della curatrice Julia Siemon e in quelli dei partecipanti alla pubblicazione di accompagnamento una serie di risposte pure parziali, ispirate però sempre a una filologia esatta e utili, in sinergia, a proporre una soluzione viabile per un rompicapo tanto articolato, specialmente per l’assenza quasi totale di termini di confronto efficaci, sopravvissuti fino ai nostri giorni. Analizzando pertanto l’iconografia (la traccia narrativa è offerta dalle Vite dei Cesari di Svetonio), le fonti visive (importante termine post quem la serie incisoria degli Imperatorum XII, pubblicata fra 1587-’89 su disegno di Giovanni Stradano), ricostruito il filo interpretativo che lega i pinnacoli con le figure dei Cesari (da Giulio Cesare a Domiziano) ai piatti istoriati con le loro gesta magnanime, si è arrivati a ipotizzare che le tazze venissero eseguite nei Paesi Bassi nell’ambito d’azione della casa asburgica durante l’ultimo decennio del secolo: una proposta seducente, che annette il servizio a un mondo di forme e di senso, nutrito dall’erudizione antiquaria (ma distante dall’Urbe), dall’universalismo connesso all’immaginario romano (epurato dai lati oscuri dei suoi governatori) e da un gusto per la pompa non estraneo ai dettami del gusto settentrionale.

Di più: uno sforzo ermeneutico che, coraggiosamente, si è proposto il compito di sottrarre tali, straordinari capolavori alla luce del proprio lustro, a un’eccezionalità magnificata dal loro splendore per riconsegnarli al gusto pieno di una ragionevole leggibilità.