«La radio a onde corte era uno di quegli strumenti che produceva libertà, facendoti vibrare sulle stesse frequenze del resto dell’universo», scrive Ardian Vehbiu nel saggio «Cose portate dal mare» pubblicato dalla casa editrice leccese Besa Muci (traduzione di Valentina Notaro, pp. 324, euro18). Nato a Tirana nel 1959 e oggi residente a New York, Vehbiu spiega: «La libertà, per me albanese, assumeva forme improbabili: il cricket trasmesso in diretta dalla BBC, un dramma di Euripide messo in scena in tedesco, una rara canzone dei Beatles in una stazione ungherese o basca, un poema di Pablo Neruda letto in esperanto da Radio Hanoi, la storia rivista del Madagascar sulle onde di RFI, le notizie di Swiss Radio International in portoghese, o ancora più raramente in spagnolo».

Cose portate dal mare racconta come, negli anni del totalitarismo, gli albanesi immaginavano l’Italia. Il volume riporta l’esperienza dello scrittore e traduttore, legando le due sponde dell’Adriatico attraverso programmi radiofonici e televisivi. In un paese a quel tempo chiuso su se stesso come l’Albania, per un gruppo di persone la televisione italiana non era altro che una forma di seduzione del «diavolo» capitalista, alla quale si doveva resistere in nome dell’ideale. Per un altro gruppo, l’Europa veniva a trasformarsi nell’incarnazione terrena del paradiso, ovvero di ricchezza culturale e spirituale. In entrambi i casi, spiega l’autore, «la mistificazione dell’esperienza fu aiutata dall’assenza di realtà, o dalla sostituzione della realtà con l’immagine». Fu così che molti albanesi, in cerca di un’altra vita, sublime, «furono ricompensati con la miserevole paga della sopravvivenza».

Oltre che da radio e tv, le due sponde dell’Adriatica si ritrovano legate da oggetti feticcio come le scarpe da ginnastica. Il capitolo «Le seducenti Adidas» racconta le vicende di Ernest Tushe e Carla, figlia dell’ambasciatore italiano a Tirana. Per avvicinare lo studente albanese al suo mondo di benessere, Carla gli regala un completo sportivo di una nota squadra italiana e un paio di Adidas. «I vestiti esteri erano un lusso irraggiungibile per chiunque», afferma Tushe. Quando lei va a casa del ragazzo, si stupisce che non avessero la lavatrice e il frigorifero, che arrivarono dall’ambasciata a bordo del suo caratteristico camioncino. Con questi doni, scrive Vehbiu, «Tushe e la sua famiglia vengono trasferiti nella zona di passaggio tra i due mondi, attraverso una trasformazione o un adattamento strettamente legati alla sfera degli oggetti che vengono guardati e consumati con gli occhi».

Questo di Vehbiu è un testo denso, ma al tempo stesso fluido nella sua narrazione, ironica e a tratti divertenti. Sono numerosi gli aneddoti e i ricordi personali dell’autore. «In un mio diario degli anni del ginnasio ho scritto cosa avrei desiderato avere: molti più libri da leggere, la televisione italiana, un commercio più ricco, musica straniera, la possibilità di viaggiare all’estero, la Coca-Cola. Ho chiesto questo, insieme alla domanda se tali richieste mi avrebbero spontaneamente trasformato in «nemico del potere» oppure no. Erano gli anni in cui le organizzazioni della gioventù e di Partito, a scuola, all’università e nei centri di lavoro, avevano iniziato un lavoro in grado di ripulitura dalle erbacce: la larghezza dei pantaloni, la lunghezza dei capelli e delle basette. I colpevoli venivano screditati, criticati, spediti in rieducazione». Ora, a distanza di anni, l’Europa e il nostro paese non sono più percepiti dagli albanesi come l’Eldorado e molti scelgono di tornare in patria.