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Architetture ordinarie

Architetture ordinarieLas Vegas di notte

Urbanistica Un percorso di libri per indagare la dicotomia, apparentemente insanabile, che pone a confronto l’autorità della pianificazione moderna delle città e la libertà «democratica» di gruppi e individui di scegliere i loro spazi, seguendo il proprio gusto

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 27 settembre 2013

È possibile mai ridurre la complessità delle trasformazioni in atto nelle nostre città e i suoi molteplici conflitti solo alla limitata libertà dei cittadini? Marco Romano, docente di Estetica della città, ne è fermamente convinto e nel suo ultimo saggio, Liberi di costruire (Bollati Boringhieri, 2013), muove una dura condanna alla pianificazione urbanistica, ritenendola la causa principale del malessere delle nostre città.

«A contrastare vivacemente la democrazia e la libertà della civitas nell’urbs – leggiamo nel prologo – è stata, in questi ultimi cinquant’anni, l’ideologia e la pratica della pianificazione moderna della città, che era stata persino limpidamente annunciata come incompatibile con la democrazia e con la libertà dal libro/manifesto La Ville Radieuse che Le Corbusier dedicherà, appunto, a l’autorité e deliberatamente non ai suoi citoyen». Può sembrare ripetitivo dopo le pesanti revisioni critiche che ha subìto la storiografia del Movimento Moderno, continuare a denunciare l’efficacia o meno dell’urbanistica «modernista».

Prendersela con l’«autoritarismo» della pianificazione, insistere con l’idea che «più democrazia» consiste nel «meno governo», è un leit motiv che già conosciamo. Non è qui il caso di ripercorrere le fasi difficili dell’urbanistica alle prese con la ricostruzione nel dopoguerra ed elencare le soluzioni esemplari rispetto ad altre che si rivelarono un insuccesso: ciò che ci interessa segnalare è il permanere ancora oggi di posizioni che credevamo superate, in quanto hanno dimostrato nei fatti la loro superficialità di analisi.
Non ha alcun senso, infatti, sostenere in modo così deterministico il raggiungimento di un maggiore e più diffuso stato di democrazia e di libertà per tutti i cittadini se non si riflette in modo più approfondito, come già ad esempio ha fatto David Harvey (La crisi della modernità, 1990), «sui necessari conflitti della democrazia con il diritto, sulle necessarie collisioni della libertà con la giustizia».

Con lo sguardo rivolto all’«Europa delle città» – cioè allo stadio dell’età dei Comuni – Romano insiste nel delegittimare il diktat di qualsiasi autorità – commissione edilizia o ente amministrativo che governi il territorio – in nome del bisogno di chiunque di affermare la sfera simbolica della civitas, il suo status nel costruire la sua casa dove, come e quando lo ritenga opportuno, meglio se condiviso all’interno di una comunità di cittadini tutti eguali. Per Romano, solo con la denuncia dell’«inconsistenza metodologica», dell’eccesso di burocrazia e di «totalitarismo» che contraddistinguono le odierne procedure urbanistiche, ogni comunità può riaffermare il diritto di disegnarsi il piano regolatore che vuole: «perché strade e piazze tematizzate sono un’esperienza e una competenza di tutti i cittadini».

Al rigore sociologico di Jane Jacobs, che per prima denunciò l’alienazione della «Grande Tragedia della Monotonia» della città americana, si è passati al populismo accademico che anacronisticamente si sovrappone a quello architettonico già noto con il suo ritorno alla città premoderna e alle eclettiche finzioni dei suoi architetti: da Leon Krier a Charles Moore.
Tuttavia il populismo – al quale la retorica anti-statalista di Romano appartiene – è un elemento ricorrente dell’architettura che nelle pieghe della «tensione fra le mistificazioni, i feticismi e le costruzioni mitologiche del vecchio ordine» (Harvey) trova sempre un’occasione per manifestarsi. Ognuna di queste prove consiste in una nuova narrazione che muove ogni volta intorno all’accusa che la causa di tutti i mali della metropoli contemporanea e della società sia il progetto moderno. Per riparare i guasti della metropoli e della società s’invoca sempre il rinnovamento che per imporsi richiama la democrazia diretta, quindi, il consenso più ampio anche se «le collettività non pensano affatto», come in modo lapidario scrisse Simone Weil.

La filosofa francese è tra i pensatori citati da Roberta De Monticelli nel suo ultimo saggio Sull’idea di rinnovamento (Raffaele Cortina, 2013) nel quale ci spiega l’«enigma dell’ontologia sociale»: «lo studio della natura dei rapporti fra potere e consenso, sui quali si fondano le istituzioni della socialità umana». L’argomento offre molti spunti di riflessione per chi si occupa del destino delle nostre città, qui ci interessa solo mettere in risalto le valide considerazione dell’autrice sulle «ambiguità» e i rischi del diffuso rivolgersi all’«intelligenza collettiva» per affermare una qualsiasi «verità».

In particolare De Monticelli spiega bene le «vaghezze» postmoderne che hanno soppresso non solo le verità filosofiche o scientifiche, ma «le pure e semplici verità fattuali che sono sotto gli occhi di tutti». Se ne deduce che senza invocare in modo astratto la libertà di azione dei cittadini, sarebbe sufficiente conoscere che l’uso del potere «non equivale di necessità a esercitare una qualunque forma di coercizione sulla volontà altrui». C’è, infatti, anche la possibilità dell’esistenza di condizioni «normali», consensuali di amministrare il bene pubblico secondo regole, principi e leggi fondate sull’etica e sulla logica.

Tuttavia, si assiste alla diffondersi di sommarie valutazioni tanto da non permetterci quasi più di «distinguere una società di briganti da una società civile». Nel nome di una collettività offesa e resa sempre più anonima se ne invoca il suo intervento affinché la realtà cambi, ben sapendo che nelle moderne società democratiche «la distribuzione del potere non si fonda affatto sul consenso personale degli individui». La ricerca affannosa del consenso è il tema centrale del populismo. È sulle sue manifestazioni e relazioni con le forme urbane che si occupa il saggio di Federico Ferrari, docente di storia urbana, dal titolo: La seduzione populista. Dalla città per tutti alla città normalizzata (Quodlibet, 2013).

Com’è stato in precedenza per Harvey, anche per Ferrari la domanda da porsi è perché, in un periodo successivo agli anni Sessanta, si sono intensificate le retoriche contro la città moderna. Qual è la ragione del diffondersi delle estetiche che attraverso il recupero della storia, ridotta in pastiche, e l’eterogeneità dei linguaggi, resi tra loro intercambiabili, permettono il diffondersi di quella serie di oggetti estetici che hanno la sola finalità di essere spettacolari e banali attrazioni per accrescere la competitività delle città.

Ferrari ritiene che una delle possibili cause stia nel fatto che «l’accento nella sfera del dibattito pubblico si è progressivamente spostato su istanze consensuali, espungendo la questione del conflitto tipico dell’idea classica di società, a favore della nozione di pacificazione peculiare dell’idea di comunità». Le «comunità» esaminate da Ferrari, perché sorte con l’intenzione di essere dei modelli alternativi a quelli dei «pionieri» della modernità, sono l’agglomeration nouvelle di Bussy-Saint-Georges, la Disney architecture di Celebration in Florida e l’ampliamento della cittadina inglese di Dorchester chiamata Poundbury opera di Krier.

L’autore illustra questi tre scenari in quanto casi paradigmatici di ciò che è stata l’applicazione pratica delle teorie antimoderniste. Il risultato non può certo soddisfare nella loro piatta e anacronistica proposizione del gusto vernacolare. È però nel capitolo dedicato al ruolo svolto dalla riflessione teorica di Robert Venturi e Denise Scott Brown che Ferrari individua le origini dell’interesse per quella «riscoperta delle istanze dal basso e di una democratizzazione del gusto» che oggi si ripresenta inalterata, a distanza di oltre quarat’anni.

In Learning from Las Vegas (1972; Imparare da Las Vegas, Quodlibet, 2010) la critica all’architettura dell’International Style pone al centro della svolta l’ambiguo richiamo ai desideri e ai gusti della gente. Le immagini del consumo di massa formate da hotel, casinò, centri commerciali e stazioni di servizio, con le loro spettacolari insegne e stravaganti decorazioni, hanno in Las Vegas il luogo ideale di verifica delle potenzialità espressive delle forme edulcorate, banali e kitsch del mercato. La riflessione venturiana si misura con i simboli e le metafore dell’«ordinario» che «eroicizzato» intende porsi come alternativa al formalismo retorico della modernità. È però nell’ultimo capitolo che Ferrari, sulle orme di Ernesto Laclau, ci espone la sua tesi secondo la quale solo negli anni sessanta si manifesta quel «populismo forte» che si distingue da quello «debole» delle epoche precedenti.

Venuta meno l’idea forte di razionalità, la capacità di affermare i principi universali che segnavano il progetto moderno, il presente si caratterizza per un’eterogeneità di comportamenti e posizioni che non si significano affatto pluralismo estetico. Il «realismo populista» è ciò che ha generato la società dei consumi e l’egemonia neoliberista. È questo l’ambito nel quale si esprime l’architettura contemporanea componendo immagini che compiacciono i gusti più mediocri e omologati ma adattandosi «razionalmente» alle nuove condizioni del presente.

È all’interno di questa «mediocrazia» che si dibatte la cultura architettonica, per adesso senza convincenti alternative.

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