Esperienza e teoremi, concretezza e speculazione: vita attiva e vita contemplativa. «Datemi un punto di appoggio e vi solleverò il mondo». Non avrebbe sfigurato nemmeno nel ’68 il manifesto sperimentale che Archimede presentò a concittadini increduli nel pieno del III secolo a.C. Lo gridò prima di stupirli sollevando con le sue sole forze, attraverso una leva composta, la nave più imponente mai costruita nell’antichità: la Siracusia, lunga 55 metri e carica fino alla tolda. Ribaltando lo slogan principe del maggio francese, viene da pensare che in realtà l’immaginazione sia sempre stata al potere, braccata tuttavia da un difetto irredimibile: raramente ha servito il popolo d’accordo con la scienza, scissa per un maleficio quasi epistemologico dalle discipline umanistiche, tanto da lasciar temere che gli uomini possano restare primitivi pur con il wi-fi a portata di polpastrelli, anime arcaiche dedite al progresso eppure incapaci di immaginare un futuro.

Il mondo interrotto

La mostra Archimede. Arte e scienza dell’invenzione, ai Musei Capitolini fino al 12 gennaio 2014, racconta le origini di un’ipotesi alternativa, una speranza dal passato resa visibile, e tangibile, da un dialogo felice tra reperti archeologici e modelli meccanici. È la storia del pensiero alessandrino: sostanza e accidente di un universo che avrebbe potuto essere e non fu, annientato con il martirio di Ipazia e con l’asse Aristotele-cristianesimo elaborato dalle università medioevali. Un progetto interrotto ripreso da Leonardo e da Galileo, eroi popolari anch’essi, come l’Archimede Pitagorico della Disney, perché baciati da una dirompente semplicità.
L’esposizione, ideata dal Museo Galileo di Firenze in collaborazione con il Max Planck Institut di Berlino, rispecchia con coerenza la visione che le dà forma, adeguando l’efficacia giocosa dei mezzi alla nobiltà dei fini. Gli organizzatori, coadiuvati dall’Opera Laboratori Fiorentini, hanno utilizzato un linguaggio attinto da diverse culture: la multimedialità, onesta mediazione nei confronti dei non specialisti, la fisica classica, la storia dell’arte, la didattica per le scolaresche. Ne è venuto fuori l’accattivante storytelling di un Archimede teso all’impegno civile, profeta della trasformazione delle tecniche in tecnologia, inventore curioso permeato di umanità che di fronte a fenomeni singolari reagisce con risposte audaci e, allo stesso tempo, semplici.
La galleria introduttiva, grazie a prestiti del Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi, propone una panoramica su Siracusa. Del Mediterraneo, privilegiato network tecnologico senza frontiere, la polis siciliana costituiva uno dei più floridi terminali, impreziosito da botteghe che producevano pezzi architettonici di raro valore anche per uso privato, come rivelano i due talamoni in terracotta e l’orologio solare esibiti. Ierone II, del cui circolo Archimede rappresentò il fiore all’occhiello, regnò dal 265 al 215, conferendo alla sua roccaforte una dimensione internazionale messa in crisi soltanto dall’avanzata di Roma, che la conquistò nel 212 con il console Marcello. Il settantacinquenne Archimede fu allora trafitto dalla spada di un ignorante, secondo la leggenda tramandata da Plutarco, perché troppo distratto da elucubrazioni geometriche: avrebbe supplicato un soldato di lasciargli finire una dimostrazione, senza rendersi conto di esasperarlo. La storiografia, al contrario, ne attribuisce l’omicidio al pragmatismo: il suo ingegno era un pericolo per quei barbari romani che lo scienziato aveva sempre avversato, preferendo il partito degli ellenizzati cartaginesi.
All’ellenismo, non poteva essere altrimenti, è quindi riservata la seconda sezione. Diodoro Siculo attribuisce «all’epoca in cui aveva visitato l’Egitto» l’invenzione archimedea della vite idraulica, utilizzata per irrigare i terreni, per svuotare le gallerie delle miniere e le sentine delle imbarcazioni nonché, riadattata, per la torchiatura di uva e olive. Il modello, realizzato dall’Opera Laboratori Fiorentini, è accompagnato da un filmato in 3D e dall’affresco di una domus pompeiana: sulle rive del Nilo, un pigmeo addetto all’irrigazione dei campi aziona con i piedi un macchinario cilindrico.
Se il volto di Archimede resta ignoto, la rassegna di ritratti in catalogo permette di immaginarlo. L’uomo di cultura, esemplificato da erme in marmo di Zenone e Epicuro, era caratterizzato da un mantra di connotati ricorrenti: sguardo acuto incorniciato da sopracciglia contratte, barba folta, capelli scompigliati.
Evocativa la stanza dedicata alla guerra contro Roma, con proiettili da catapulta rinvenuti presso il Castello Eurialo e le riproduzioni della manus ferrea, il futuristico robot progettato dall’inventore per ribaltare le triremi nemiche, e dello specchio ustorio, approntato per incendiarle. Dopo un secolo e mezzo di oblio, Archimede entrò nel mito per l’interesse di Cicerone che, questore in Sicilia nel 75 a.C., scoprì la sua tomba rintracciandone sulla sommità una sfera e un cilindro. È l’oratore, inoltre, a fornire una dettagliata descrizione del planetario ideato dallo scienziato che, oltre a mostrare contemporaneamente i moti dei corpi celesti conosciuti, sapeva perfino animare le eclissi di Sole e di Luna. Alcuni storici lo hanno individuato nel meccanismo di Antikythera, il prodigioso computer meccanico realizzato a Rodi attorno alla metà del I secolo a.C. e ripescato da un relitto nel 1900, al largo di un’isola greca.
L’accurato modellino riprodotto dagli organizzatori rende onore a tanto anacronistico ingegno, ben rappresentato nel suo spontaneo entusiasmo dall’immortale Eureka, tramandato da Vitruvio e deflagrato in occasione della scoperta del principio del peso specifico, nata dalla richiesta di Ierone che voleva assicurarsi dell’autenticità di una corona d’oro ricevuta in dono. La teoria dedotta dall’esperimento è esemplificata da bilance e stadere in bronzo provenienti da Berlino. Non si tratta di disinteressata speculazione: rendersi conto che una bilancia con bracci disuguali è in equilibrio quando i bracci delle leve sono inversamente proporzionali ai pesi applicati è il primo passo per mettere a punto macchinari in grado di spostare grandi carichi con il minimo sforzo.
L’utilità di simili studi non garantì la sopravvivenza di Archimede nel corso del medioevo. A riscattarlo dal silenzio fu l’Islam. Intorno al 1150, un autore arabo tradusse un trattato sconosciuto agli antichi: Sugli orologi ad acqua, fonte degli esperti di Firenze per disegnare il prototipo in mostra. In Europa, tuttavia, bisogna attendere il 1269 per la prima traduzione latina di diversi scritti del siracusano, raccolti da Guglielmo di Moerbeke in un codice conservato alla Biblioteca Vaticana e esposto eccezionalmente in Campidoglio.

Il principio della leva

Le ultime stanze narrano la conversazione tra pari instaurata con la tradizione archimedea da due epigoni moderni: Leonardo e Galileo. Alla ricerca dell’arma da fuoco perfetta, il genio di Vinci disegnò i bozzetti di un cannone a vapore, l’architronito, ripreso da Archimede. Anche per Galileo il siracusano fu «esempio di rigorosissime dimostrazioni», tanto raffinate da eludere necessariamente qualsiasi banalità. Così in uno scritto giovanile, pubblicato postumo, volle dimostrare che Archimede avrebbe svelato l’inganno della corona ricorrendo a un procedimento ben più sofisticato di quello descritto da Vitruvio, sfruttando un’apposita «bilancetta».
Insieme alla teoria, la pratica. Nel piano superiore, toccare e sperimentare sono le parole d’ordine, con una sfilata di macchine per imparare divertendosi: specchi parabolici che riflettono il suono, le dimostrazioni delle relazioni dei volumi tra sfera, cilindro e cono e della quadratura della parabola, un apparato per disegnare spirali, ripreso anche dalle macchine per cucire Singer, un’altalena per capire il principio della leva. L’allestimento si conclude con l’idea che ha sostenuto la sua narrazione: la semplicità. L’argano, il piano inclinato, le carrucole sono macchine elementari. Combinandole è possibile ottenere una varietà di meccanismi più complessi, utilizzabili a livello industriale per molteplici scopi.
Agli albori del Risorgimento, appariva grave offesa al Manzoni dei Promessi Sposi la qualifica di «vile meccanico»: quanto creato con le mani non poteva essere nobile. Nel 1906 il filologo danese Heiberg, analizzando una pergamena appena rinvenuta a Costantinopoli, scoprì che nascondeva, al di sotto di un codice pieno di preghiere, un lavoro matematico di Archimede ancora ignoto: Il metodo. «Checché ne dica Platone, o Eratostene, la geometria deve dimostrare i suoi teoremi partendo da basi meccaniche». Archimede, scrivendo al suo collega di Alessandria, anticipava di un millennio e mezzo il rasoio brandito da Guglielmo da Occam contro l’artificiosità delle metafisiche. È inutile formulare più teorie di quelle strettamente necessarie per spiegare un dato fenomeno: una lezione eternamente sottovalutata.