Alla fine degli anni novanta, la collana «Guide Trend» pubblicata da Mondadori non mancò di dedicare un volume al mestiere dell’archeologo. Il libro, che poteva vantare la prefazione di Riccardo Francovich ed era curato da Maurizio Forte, comprendeva una curiosa scheda intitolata «L’archeologo visto dagli altri» in cui era stilata una serie di luoghi comuni, anche esilaranti, tuttora in voga. Assieme all’intramontabile identificazione dell’archeologo con Indiana Jones e, più genericamente, con un «cercatore di tesori», si trovava l’altrettanto diffusa dichiarazione: «Dev’essere un bel mestiere, sognavo di farlo da bambino». In Scavare nel passato La grande avventura dell’archeologia (Carocci editore «Sfere», pp. 398, euro 26,00) Andrea Augenti confessa invece che da piccolo subiva il richiamo per lo spazio e per gli extraterrestri, tanto da bramare autentici stivali da allunaggio. Poi suo padre gli regalò Civiltà Sepolte – il libro cult di C.W. Ceram, apparso in Italia nel 1952 (l’edizione tedesca è del ’49) con la traduzione di Licia Borrelli e un saggio introduttivo di Ranuccio Bianchi Bandinelli. Grazie a quel colpo di fulmine, fatale a molti, per il «romanzo dell’archeologia» scritto dall’appassionato e nondimeno rigoroso giornalista K.W. Marek (di cui Ceram è lo pseudonimo), Augenti – medievista dell’Università di Bologna – ha saputo superare la visione specialistica e frammentaria imposta dall’Accademia per abbracciare l’infinito e «liquido» orizzonte del passato.
Partendo dalla convinzione che l’archeologia sia una materia viva e pubblica ovvero rivolta anche alla comunità, nel 2017 ha ideato Dalla terra alla Storia, un programma per Rai Radio 3, in cui narrava le più celebri (e alcune tra le meno note) imprese dell’archeologia. Da quell’esperienza è nato il libro A come archeologia (Carocci 2018), che contiene i testi rielaborati delle dieci puntate del primo ciclo. A caratterizzare questo nuovo volume, il quale raccoglie la quasi totalità delle scoperte presentate alla radio con l’aggiunta di qualche capitolo originale, è il desiderio di offrire a chiunque ne sia incuriosito un racconto non banale dell’archeologia e di descrivere il lato spettacolare dei rinvenimenti approfondendo al contempo il metodo di lavoro che ha portato a una determinata scoperta. Augenti tiene particolarmente a rivendicare la sua padronanza delle «regole del gioco» e a smentire l’opinione secondo la quale gli archeologi non sarebbero capaci di valorizzare da sé le proprie ricerche, necessitando di mediatori. Pregiudizio che, in parte giustificato dalla chiusura e dallo snobismo manifestati da una nutrita schiera di docenti universitari e funzionari del Ministero della Cultura nei confronti dei non addetti ai lavori, ha generato nell’ultimo decennio il proliferare di «esperti» della comunicazione, risoluti ad attirare masse di appassionati di archeologia con narrazioni semplicistiche che spesso risultano ridicole.
Tuttavia, la strada dello storytelling non è mai stata preclusa ai «veri» studiosi, purché essi posseggano – al pari di Augenti – lungimiranza, generosità e una giusta dose di talento. A dimostrazione di ciò basterebbe andare a rileggersi, ad esempio, le splendide pagine scritte quarant’anni fa dal maestro dell’archeologia fenicio-punica Sabatino Moscati su Persepoli nel volume edito da Rusconi e illustrato con le fotografie di Tano Citeroni. Diversi sono inoltre i direttori dei musei e dei parchi archeologici – da Christian Greco a Valentino Nizzo e Francesco Sirano – impegnati oggi in prima persona in una divulgazione di qualità, anche mediante l’uso dei social network.
L’interesse del libro di Augenti risiede non soltanto nell’ampiezza geografica e temporale dei temi trattati – si spazia dall’Occidente all’estremo Oriente e dalla Preistoria al Medioevo – ma anche nell’arguzia delle sollecitazioni cagionate ai lettori, informati sugli sviluppi della disciplina e chiamati a riflettere sull’impatto scientifico e culturale delle «rivelazioni» della Storia nelle società di riferimento. Senza dimenticare gli aspetti più umani legati ai protagonisti di memorabili gesta, come a dire che l’archeologia non è solo una questione di stratigrafie, di monumenti e di oggetti più o meno preziosi riportati alla luce, ma anche una sfida che coinvolge in modo trasversale le esistenze. A questo proposito, uno dei racconti più significativi del volume riguarda il rinvenimento, effettuato nel 1964 nell’antico porto di Caere (Cerveteri), delle lamine di Pyrgi, attualmente conservate presso il Museo di Villa Giulia a Roma. Augenti ripercorre, con uno stile accattivante e prossimo a un dialogo confidenziale che a tratti non esclude l’ironia, lo scavo delle strutture templari, fino alla scoperta di tre «fogli» d’oro in cui si intravidero da subito dei segni alfabetici in etrusco e in fenicio. Mettendosi nei panni di Massimo Pallottino – il quale dirigeva le ricerche coadiuvato sul campo da Giovanni Colonna – il lettore ha l’opportunità di comprendere quanta ostinazione e quali differenti competenze siano essenziali per risolvere ciò che dall’esterno viene percepito come un intrigante mistero ma che, per l’archeologo, costituisce una chiave utile alla ricostruzione dei contesti antichi.
La provocazione di Augenti consiste dunque nello spogliare del manto eroico una figura popolare e spesso invidiata, il cui merito non dovrebbe dipendere dal clamore dei ritrovamenti ma da un tenace lavoro al servizio della scienza e della collettività. A questo scopo, pur non sottraendosi – sulla scia di Ceram – alla fascinosa epopea delle scoperte di Troia o della tomba di Tutankhamon, l’autore mette in evidenza progetti contemporanei e solo apparentemente meno grandiosi delle avventure dei primordi. Tra questi lo scavo urbano della cosiddetta Cripta di Balbo, che ha restituito la storia pluristratificata di un intero quartiere nel cuore di Roma; o le indagini nel monastero di San Vincenzo al Volturno, in Molise, le quali – in seguito a un certosino confronto tra documenti scritti e dati materiali – hanno permesso alle rovine di un’abbazia risalente al tempo di Carlo Magno di trasformarsi in un prodigioso «diorama» de Il nome della rosa.
Sono numerosi i sentimenti che germogliano tra le pagine di Scavare nel passato, dalla tenerezza per i fratelli Yang, che nel 1974 – nel disperato tentativo di far fronte alla siccità del territorio di Xi’an, nella Cina nord-orientale, scavano un pozzo ma non trovano acqua bensì frammenti di sculture, all’ammirazione per Zhao Kangmin, il giovane direttore di museo che, allertato dalla gente del posto, favorirà l’esplorazione delle fosse contenenti l’esercito di terracotta del defunto imperatore del III secolo a.C. Qin Shi Huang. E se è lecito esprimere un po’ di rammarico per la mancanza, in un’opera che ha il pregio di spingersi fino all’Isola di Pasqua e ad Angkor, di almeno una scoperta effettuata in Grecia – là dove affondano le radici europee –, è da apprezzare come una rievocazione di colore quale il soggiorno di Agatha Christie in Mesopotamia al seguito del marito Max Mallowan, assistente di Leonard Woolley negli scavi di Ur, spinga a ripensare con nostalgica speranza i siti archeologici del Medioriente, vittime collaterali di guerre moderne e bersagli dell’ideologia iconoclastica dell’Isis. Più difficile unirsi al plauso di Augenti verso l’odierna strategia di ricerca, eccessivamente orientata al sensazionalismo, del Parco archeologico di Pompei, sebbene il medesimo autore non esiti a promuovere un progetto di ben altra levatura etica come quello condotto da Jason de León sulle tracce dei migranti che si muovono dal Messico verso gli Stati Uniti. D’altronde, si legge fin dall’introduzione al volume, l’archeologia è «un modo di fare storia, concentrato sugli a spetti materiali delle vicende umane» che aiuta ad affrontare «persino gli argomenti più delicati e scottanti della contemporaneità».