Le varie popolazioni e culture che nel corso dei millenni si sono susseguite nel bacino del Mediterraneo hanno costantemente plasmato il paesaggio, lasciandoci in eredità una cospicua ed eterogenea serie di testimonianze archeologiche «in negativo», non meno pregevoli delle architetture costruite in elevato.

Si tratta delle piccole necropoli a grotticella artificiale dell’Età del Bronzo e del Ferro, dei santuari greco-romani e dei grandiosi ma semisconosciuti insediamenti rupestri di epoca medievale. Senza tralasciare le camerette ipogeiche funerarie dei propagatori della nuova fede cristiana, le tracce delle antiche strade di collegamento intagliate nella viva roccia (carraie) e degli acquedotti monumentali nonché i resti delle molteplici attività produttive che si svolgevano in quest’area (frantoi, palmenti, concerie, apiari, silos).

Fino ad arrivare alle più recenti masserie, ai mulini ad acqua e agli abbeveratoi, segni evidenti di un passato sociale, economico e culturale legato al mondo contadino, alle tradizioni artigianali e alle attività di tipo silvo-pastorale. Un contesto unico nel suo genere, composto allo stesso tempo da beni culturali materiali e immateriali di antica tradizione e in continua evoluzione, nel quale il fenomeno del vivere in grotta continua a sussistere con le sue trasformazioni e i suoi peculiari stili di vita pur essendo gradualmente e inevitabilmente divenuto sempre più marginale.

Dell’«invisibilità» e fragilità di questo patrimonio abbiamo discusso con Santino Alessandro Cugno, autore del libro Archeologia rupestre nel territorio di Siracusa (Bar Publishing) e coautore con Rosalba Piserà di Zungri: archeologia di un villaggio rupestre medievale nel territorio di Vibo Valentia (L’Erma di Bretschneider, pp. 126, euro 39). Quest’ultimo volume sarà presentato domani, in un incontro aperto al pubblico, nel chiostro del convento di Santa Maria sopra Minerva presso il Senato della Repubblica, con la partecipazione di Elisabetta De Minicis, docente di Archeologia medievale all’Università degli studi della Tuscia e tra le più autorevoli studiose di Archeologia rupestre.

In Italia, l’Archeologia rupestre si è sviluppata di recente come disciplina autonoma nel campo dell’Archeologia medievale. Con quale approccio?
La tradizionale ipotesi storiografica secondo cui le manifestazioni del vivere in grotta nell’Italia meridionale siano tutte da ricondurre alla presenza di comunità monastiche, giunte dall’Oriente bizantino nell’Alto Medioevo, ha condizionato le ricerche archeologiche in questo settore. A lungo, archeologi e storici dell’arte hanno considerato degni di interesse solo i luoghi di culto affrescati, ignorando quasi completamente le chiese prive di immagini, le abitazioni, le infrastrutture produttive. Ciò ha impedito di cogliere le complesse implicazioni sociali, economiche e culturali alla base del fenomeno, che emergono oggi con l’applicazione di una metodologia attenta alle varie tipologie di monumenti. Gli scavi archeologici in ambito rupestre sono invece ancora poco sviluppati.

Gli insediamenti rupestri – ad eccezione dei Sassi di Matera e della necropoli di Pantalica, in provincia di Siracusa, entrambi patrimonio dell’Unesco – sono spesso invisibili rispetto al resto dei siti archeologici. Tale circostanza rende le «grotte», già di per sé particolarmente esposte al degrado naturale e alla speculazione edilizia, a rischio di sparizione. Come agire per preservarle?
I siti rupestri di Matera, di Massafra (Taranto) ma anche di Pantalica e Cavagrande del Cassibile (Siracusa) o di Zungri (Vibo Valentia) – solo per citarne alcuni –, sono dei veri e propri esempi di «paesaggio culturale», cioè aree geografiche in cui natura e cultura si intrecciano per formare un contesto storico, artistico e paesaggistico unico. Sono però anche dei siti molto fragili e non sufficientemente conosciuti, per i quali è necessario avviare progetti di ricerca multidisciplinare, finalizzati da una parte a una migliore comprensione dell’habitat rupestre medievale e dall’altra a una più efficace attività di monitoraggio e tutela delle testimonianze materiali.

Alcune recenti iniziative intraprese nel Sud Italia hanno condotto alla messa a punto di itinerari archeologico-naturalistici, ricostruzioni virtuali, laboratori didattici, mostre fotografiche, seminari e dibattiti aperti anche alla società civile. Tali eventi, collocabili nell’ambito dell’Archeologia pubblica, hanno contribuito a inserire le singole cavità rupestri all’interno di un più vasto quadro territoriale, socio-economico e culturale, creando così un tessuto connettivo forte tra ricerca archeologica, paesaggio e comunità locale. La strada della condivisione della conoscenza e della valorizzazione è fondamentale per la salvaguardia del nostro patrimonio.