Raccontare la storia attraverso le biografie di personaggi illustri è un’idea schiettamente antica, mille volte ripresa dal Rinascimento in poi e, a quanto pare, di grande successo anche oggi. È il caso di Adriano Roma e Atene, scritto a quattro mani da Andrea Carandini ed Emanuele Papi (UTET, pp. 358, e 20,00). La prima parte del libro – scritta da Carandini, con M.C. Capanna e M. T. D’Alessio – è dedicata alla presenza e all’attività dell’imperatore Adriano (117-138 d. C.) a Roma; nella seconda parte Papi, direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene, illustra invece il rapporto tra l’imperatore e la città greca. Entrambe le sezioni sono articolate in capitoli, seguìti da rapide schede sugli edifici (23 per Roma e 18 per Atene), a loro volta corredate da una sequenza mirabilmente ricca di immagini e tavole.
Tra le schede più ampie c’è quella dedicata al Pantheon, ma non si tratta solo, come ci si aspetterebbe, di una puntuale descrizione dell’edificio attuale. Il punto, infatti, è che per Carandini «il progetto del nuovo Pantheon e la prima fase della sua realizzazione» risalgono «a Traiano e al suo architetto Apollodoro di Damasco»; le analisi che altri studiosi hanno recentemente condotto sui bolli laterizi (cioè sui marchi di fabbrica presenti su alcuni mattoni impiegati nell’edificio) farebbero pensare che l’impresa di uno dei produttori – un certo Anteros – fosse già attiva alcuni decenni prima di Adriano, e che perciò l’inizio della costruzione vada riportata al tempo di Traiano. In ogni caso, Carandini ritiene che l’edificio attuale vada letto in rapporto al primo Pantheon fatto costruire da Agrippa, genero di Augusto, verso il 25 a.C., e poi distrutto da un incendio un secolo più tardi: l’oculus, la grande apertura sulla sommità della cupola, viene dunque letto come allusione alla apoteosi, la mitica ascesa al cielo di Romolo, che poi caratterizzerà anche Augusto e gli imperatori successivi; Carandini prospetta la possibilità che sui cassettoni della cupola fossero fissate stelle in bronzo dorato a suggerire la volta celeste. Questa riguardante il Pantheon è solo una delle diverse messe a punto di carattere archeologico presenti nel libro.

Il tema del cielo e la natura divina
Il tema del cielo riappare altrove nel volume, in particolare quando si tratta del complesso dell’Accademia all’interno di Villa Adriana a Tivoli; in questo caso saremmo davanti a un edificio in cui si uniscono il carattere dionisiaco (i mosaici e le statue che allora vi erano esposte) e il tema astronomico: la villa sarebbe orientata secondo la «linea ideale che unisce l’alba del solstizio invernale … al tramonto del solstizio estivo». Una parte del complesso, quella di Roccabruna, sarebbe addirittura un «osservatorio», luogo perfetto per osservare la «nuova stella della costellazione dell’Aquila che l’anima dell’amato, morto nel Nilo e assimilato a Osiride, aveva acceso salendo in cielo»; si sta parlando di Antinoo, il giovane amante di Adriano: proprio a lui sarebbe stato dedicato il complesso della Accademia.
Anche altrove Carandini evoca questa tensione spirituale di Adriano, negli ultimi anni di vita: «era ormai tutto rivolto alla sua natura per eccellenza divina e al suo destino preparato per il cielo. Natura divina la sua, adatta alla principesca condizione di futuro divo, ma non abissalmente diversa da quella dell’uomo comune e perfino dello schiavo, i quali possedevano in loro un frammento della divinità cosmica, luminosa ed eterna».
A Tivoli, diversi ambienti dell’Accademia – nome tratto da quello di un ginnasio dell’antica Atene – presentano una copertura «a zucca», cioè con cupole a spicchi. L’espressione che Carandini usa qui e in altri passi si richiama a un aneddoto trasmesso dallo storico Cassio Dione: mentre Traiano e l’architetto Apollodoro di Damasco discutevano della costruzione di alcuni edifici, Adriano avrebbe interrotto i due con alcune osservazioni; a quel punto Apollodoro gli avrebbe detto di smetterla e di andare «a dipingere le sue zucche», perché di architettura non ne sapeva proprio niente. Le «zucche» disprezzate da Apollodoro non erano dipinti con nature morte (così pensava ad esempio Marguerite Yourcenar), ma molto probabilmente disegni architettonici relativi a volte con profilo mistilineo – come quelle che vediamo in certi settori di Villa Adriana. A proposito, alla scrittrice francese è riservata una riga all’interno della pur piacevole rassegna della fortuna moderna dell’imperatore redatta da Emanuele Papi.
Carandini prende per buono il racconto di Cassio Dione (attivo tra II e III secolo d.C.), secondo il quale più tardi Adriano, ancora memore di quel vecchio episodio e risentito per nuove critiche di Apollodoro al suo progetto del tempio di Roma e Venus, lo mandò in esilio e poi lo fece eliminare. Saremmo quindi davanti a un personaggio ai limiti della follia (altro che «impaziente» e poco «tollerante» come lo definisce lo studioso): da un lato capace di progetti architettonici straordinariamente innovativi (le coperture «a zucca»), dall’altro violento e vendicativo in modo sproporzionato. In realtà la scenetta di Cassio Dione è uno dei tanti aneddoti di fantasia che punteggiano quella che Ernst Kris e Otto Kurz, ormai quasi un secolo fa, chiamarono la «leggenda dell’artista», le vicende eccezionali (il più delle volte costruite a posteriori) capitate a uomini ritenuti speciali.

Astrologo mago o sovrano assoluto?
Ma allora, che uomo era Adriano? «Curioso di tutto, insaziabilmente ambizioso e geloso di chi eccelleva»? Un «principe astrologo e mago come vari suoi predecessori»? Un politico che «mirava a essere un sovrano assoluto, capace d’imprimere un ordine giuridico e amministrativo coerente nel vasto impero, a tal punto consolidato da farlo parere e ritenere davvero eterno»?
Il saggio di Carandini è intitolato «Il racconto»: è questo che lo studioso si propone di fare, e che più volte ha teorizzato in passato, un racconto del mondo antico che si basi sull’archeologia come sola disciplina capace di rendere conto della «totalità del reale». Ma raccontare è difficilissimo – e questo è vero anche per la sezione curata da Papi – e non è sufficiente radunare una quantità, per quanto notevolissima, di informazioni, di date e di dati. Non basta neppure ricorrere estesamente a una narrazione al passato prossimo – «Nell’estate del 125 Adriano ha concluso il primo viaggio nelle province …» –, quasi che con questo adattamento dei tempi verbali gli scenari antichi diventino più vicini e parlino più chiaramente alla nostra contemporaneità. Un racconto funziona perché ci sono un montaggio, una selezione, degli scarti, l’assunzione di un punto di vista. Invece questo Adriano trabocca di genealogie e parentele, di complotti e di intrighi di palazzo; di «occulte strategie» e «grandi conquistatori»; il versante della visione politica va confondendosi con il piano dei vizi e delle virtù (filtrati perdippiù da fonti antiche lontane e lontanissime dagli avvenimenti), delle idiosincrasie e delle passioni individuali. Quando per esempio si afferma che «il principato di Adriano, considerato nel suo insieme, è stato eccellente» (p. 87), che cosa si intende e da che punto di vista?
E poi ci sono i materiali, gli edifici, i monumenti, le iscrizioni, le ricostruzioni, insomma l’archeologia: paradossalmente sono proprio la straordinaria ricchezza e la qualità della documentazione presentata da Carandini e da Papi a far risaltare il continuo incepparsi del «racconto». Siamo davanti a una questione per nulla nuova (e, anzi, sempre più urgente): la comunicazione tra il mondo degli studiosi e quello dei non addetti ai lavori, una questione su cui lo stesso Andrea Carandini ha riflettuto profondamente (una decina d’anni fa il sottotitolo di un suo saggio suonava Vedere il tempo antico con gli occhi del 2000). Ma il lavoro da fare in questa direzione è ancora tanto.