«Di gantse velt iz eyn shtot, il mondo intero è una città: è un proverbio yiddish che si legge anche al contrario, ovvero, una città può rappresentare un mondo. Sta in queste parole il lascito dello zio Daniel alla pronipote Hélène, appena arrivata a Parigi per studiare archeologia: trascritto in caratteri ebraici, il proverbio è nascosto nella cornice di un quadro appeso alla parete della mansarda che lo zio le ha prestato. Dovrà però passare del tempo perché Hélène capisca il senso di quel messaggio, e anche per il lettore la scoperta sarà graduale.

I Viaggi di Daniel Asher, romanzo d’esordio di Déborah Lévy-Bertherat, brillantemente tradotto da Margherita Botto per Einaudi (pp. 160, euro 17,50) racconta l’indagine appassionata che una ventenne conduce attraverso i segreti di famiglia e le pieghe della Storia, grazie al potere della letteratura e soprattutto della finzione che la nutre.

Lo zio di Hélène, un vecchio giramondo eccentrico, trasandato, infantile, scrive, con lo pseudonimo di H. R. Sanders, romanzi d’avventura ispirati ai suoi viaggi. Romanzi cui peraltro la ragazza non si è mai interessata, così come non ha mai prestato attenzione alle diverse pietre che lo zio le porta dopo ogni esplorazione in giro per il mondo. Ma a un certo punto qualcosa cambia, e nel tentativo di dissipare l’alone di mistero che avvolge lo zio, Hélène intuisce che la sua produzione narrativa, apparentemente proiettata verso l’altrove, in una dimensione fittizia, è intimamente legata al «qui e ora», a vicende dolorosamente reali. Archeologa, Hélène deve scavare in profondità, alla ricerca di segni del passato; deve però anche assumere la leggerezza necessaria per calarsi in una fiaba. Come Pollicino segue i sassolini – le pietre ricevute – per rintracciare il cammino che la porterà a casa, ovvero alle sue origini.

Un periplo complesso condurrà la studentessa attraverso le vie di Parigi, poi in Auvergne e per finire negli Stati Uniti. Troverà però la soluzione al mistero proprio nel punto da cui era partita. E se lo zio non avesse viaggiato altro che nel tempo della memoria e nello spazio di una Parigi ormai scomparsa? Di gantse velt iz eyn shtot. Pollicino si riscopre Alice.

Da un lato, il romanzo di Déborah Lévy-Bertherat è pieno di luoghi comuni (la mansarda che dà sui tetti di Parigi, i segreti di famiglia con radici nella storia dell’Occupazione, le traversate della memoria; dall’altro, questi stessi luoghi comuni appaiono sapientemente scelti e disposti in una rete di rimandi intertestuali che ha uno scopo preciso: suggerire che nulla è vero quanto la finzione. Il dialogo tra letteratura e realtà eccede lo spazio propriamente testuale ed è suggerito fin dal paratesto, che presenta una situazione al limite della metalessi: delle due epigrafi che aprono il volume, la prima è tratta da un romanzo fittizio di H. R. Sanders, mentre la seconda è tratta dal Robinson Crusoe di Defoe, autore reale (anche se – coincidenza? – ha raccontato di mondi lontani senza mai spostarsi da Londra). E d’altronde, il vero cognome dello zio, che tradisce le sue origini, è suggerito dallo pseudonimo che assume scrivendo: H. R., in francese, si legge come Ascher.

Il discrimine tra realtà e finzione è talvolta più sottile. Per esempio, viene descritto fin dalle prime pagine un quadro dell’artista russo-francese Chaïm Soutine, La ragazza con il candelabro, di cui Hélène trova una copia nella sua stanza. Il fidanzato lo riconosce ma precisa di non averlo mai visto, di averne solo «letto la descrizione in un romanzo». Il romanzo è firmato da H. R. Sanders e se il fidanzato non ha mai visto il quadro è perché Daniel Asher lo tiene nascosto; ma il riferimento è ambiguo, perché pur avendo un autore reale (Soutine), il quadro non esiste se non nella fiction firmata Déborah Lévy-Bertherat, e quindi anche noi, lettori, siamo costretti a leggerne solamente «la descrizione in un romanzo».

Già trasformato in un suo personaggio da Roald Dahl, nel 1961, Soutine sembra viaggiare molto nella narrativa internazionale: un suo quadro – anche questa volta immaginario – costituisce, per esempio, il filo conduttore del romanzo storico di Ellen Umansky The Fortunate Ones, del 2017, tradotto da Newton Compton con il titolo La ragazza del dipinto.

Moltissimi sono i rimandi intertestuali nei Viaggi di Daniel Ascher: oltre alle fiabe, si allude a Robinson Crusoe, a Moby Dick, ai racconti di E. A. Poe (uno dei romanzi di H. R. Sanders si intitola La caduta della casa degli Ascher, echeggiando Usher). Le ricerche di Hélène tra le vie di Parigi fanno pensare alle indagini di Patrick Modiano, in particolare quella volta a riportare alla luce Dora Bruder, catturata dai nazisti durante la seconda guerra mondiale.

Romanzo delle origini, romanzo genealogico? Romanzo di filiazione, alla Pierre Michon, alla Pierre Bergounioux? Di certo Déborah Lévy-Bertherat è consapevole di questa tradizione visto che insegna letterature comparate all’École normale supérieure di Parigi, e vi iscrive il suo romanzo senza temere qualche déjà-vu. Però i riferimenti più pressanti sono a una letteratura meno recente, per esempio al Perec di W o il ricordo d’infanzia, che nasce precisamente dall’intreccio sapiente di memoria, Storia e finzione, cui Lévy-Bertherat fa anche lei riferimento; ma con una differenza sostanziale: nei Viaggi di Daniel Ascher la fiction non racconta la parte più terribile della storia, come in W o il ricordo d’infanzia: anzi, è impregnata di sogni, di fiabe e di avventure, ed è la sola dimensione possibile per vivere pienamente una vita altrimenti compromessa. Del resto, il romanzo di Déborah Lévy-Bertherat non è (solo) indirizzato a lettori strumentati: certamente è anche una riflessione sul potere della letteratura, ma si può leggere come un qualsiasi romanzo d’avventura e di formazione, forse un po’ inverosimile, ma sicuramente godibilissimo.