«Meravigliò la gente d’Europa (…) il contagio mai visto prima in nessun luogo; ma il capitano, molte cose tra sé meditando nel silenzio del cuore: “Era questo – diceva – il morbo sconosciuto (distoglietene, o dèi, da noi l’evento!), che ci vaticinava la funesta profetessa di Febo”». Questo passo, che rischiamo di sentire familiare dopo la pandemia dei nostri anni, viene da un poema di Girolamo Fracastoro, una delle figure più innovative della cultura del Cinquecento, medico e scienziato aperto a interessi spirituali ma soprattutto elaboratore di osservazioni cliniche su quello che oggi chiameremmo epidemiologia, batteriologia, virologia. Il suo apporto creativo più sorprendente e popolare rimane il poema latino Sifilide, da cui è tratta la citazione, che fa risalire l’origine della malattia al pastore Sifilo, punito da Apollo per infedeltà. Dell’autore offre un profilo magistrale, insieme a un’antologia di passi con traduzione e commento di stupefacente erudizione, l’antologia Poeti latini del Cinquecento creata da Giovanni Parenti e, dopo la sua scomparsa nel 2000, curata con competenza e pietas esemplari da Massimo Danzi per le Edizioni della Normale, in due volumi monumentali (pp. 668 e 703, e 80,00). Un opus maximum cui Parenti lavorò per decenni e che non riuscì a completare prima che il destino gliene togliesse, a 53 anni, le speranze.
Una fatica priva di precedenti equidimensionali (lontani confronti l’antologia di Perosa-Sparrow del 1979 e la parte italiana di quella di P. Laurens e C. Balavoine del 1975), dunque realizzata su letture e fonti di prima mano, spesso senza traduzioni-guida che mettessero al riparo da fraintendimenti. Il piano prevedeva cinque aree: romana, veneta, veronese, bresciana, toscana, più una meridionale, secondo un’articolazione che risentiva molto delle tesi di Carlo Dionisotti imperanti in quegli anni. Ne restano i profili e gli estratti di sedici personalità, meno di metà di quelle originarie, la cui storia editoriale Danzi rievoca con filologica precisione, seguendola fino alla pubblicazione del primo tomo come ultimo volume della collana Ricciardi «Letteratura Italia. Storia e testi», poi chiusa. Il resto esce ora, dopo un altrettanto lungo lavoro di collazione dell’originale di Parenti con le fonti (manoscritti e stampe antiche) su cui era basato: un mausoleo di conoscenze che si esplica non solo in curatela meticolosa e magistrale traduzione, quanto nella presentazione degli autori, accuratissima di dettagli biografici, informatissima (limitatamente al 1999) sulla tradizione di studi e sulle fonti primarie e soprattutto nella valorizzazione critica, con sostegni ermeneutici e intertestuali che, distillati in un’epoca ancora povera di archivi elettronici, sembrano oggi veramente prodigiosi, pur restando sempre motivati da un rapporto di necessità con il testo principale.
Il quadro che emerge da una scelta che sa toccare gusti, scenari e tonalità non uniformi è perciò assai più variegato, mosso e frastagliato dell’immagine frivola e cortigiana che la cultura, soprattutto latina, di quest’epoca si porta dietro (e non senza ragioni). Non mancano naturalmente i pastori leziosi, i cicisbei cinguettanti, le arcadie cardinalizie, le futili arguzie, le cene delle beffe, gli xenia (epigrammi per doni mandati o ricevuti), le eziologie mitologiche di alberi e animali e i servi, talora spudorati encomi di una classe intellettuale che, contrapponendosi spesso alle università o alle scuole cattedrali e monastiche, doveva per forza dipendere dagli umori, i gusti e i capricci dei signori privati cui facevano da cancellieri, segretari, consiglieri, precettori. Di ogni poeta Parenti sa mettere a fuoco un colore inatteso, un risvolto inedito, un’innovazione finora poco illuminata. Perfino Guido Postumo Silvestri è capace di emozionare con l’appello feticistico e romantico all’immagine dell’assente nell’elegia di tipo ovidiano (l’Ovidio delle Heroides) scritta a nome di un’Elisa didonica (chi sa se anche abelardiana). Del Valeriano, ossia Giovanni Pietro dalle Fosse, Parenti mette in vetrina il sarcasmo impietoso nel ritratto del Calfurnio, umanista bergamasco colpito da un ictus che il poeta rappresenta come un’eruzione, dal cervello troppo pieno, delle innumeri nozioni greco-latine ivi conflittualmente imprigionate e mai comunicate, anche se il suo capolavoro, si fa per dire, è l’elegia meta- e insieme fanta-letteraria, in cui immagina una gita di Catullo e amici sul Garda: dalle onde, per ascoltare la sua poesia, fuoriescono ninfe il cui affollamento fa oscillare la barca e cadere in acqua i fogli di Catullo, e le sue lettere d’oro vengono ingoiate dal carpione, pesce che trae il nome dall’attività di carpire il cibo prezioso. Altra finestra erudita ma sgangherata sulla realtà socio-letteraria si apre nei suoi Hexametri: Parenti ne sceglie una satira che difende i poeti della curia romana dall’accusa di essere scimmie imitatrici della realtà umana e ringrazia il pontefice (Leone X, mecenate di gran parte di questi autori), che riconosceva loro la dignità meritata.
L’attenzione di Parenti al rapporto con l’arte e le sue rappresentazioni testuali trova il suo picco nel poemetto Laocoon del modenese Iacopo Sadoleto, che si esercita sul celebre gruppo marmoreo ellenistico scoperto proprio nel 1506 a Roma e descritto, a gara, dai poeti dell’epoca. Rappresentava il sacerdote che aveva svelato la trappola del cavallo di Troia ma fu stritolato insieme ai figli da serpenti marini inviati dalle divinità avverse. Sadoleto li supera tutti nel «rendere con pertinenza di linguaggio anatomico e finezza di penetrazione gli effetti fisici e psicologici prodotti dal dolore e dal terrore sui tre personaggi, la tensione muscolare e lo spasimo dei corpi avvinti dalle spire serpentine e la pietà dipinti nei volti e negli atteggiamenti», creando una sorta di illusionismo poetico attraverso lo sguardo che via via chiama in primo piano i vari dettagli della scultura. Francesco Maria Molza, anch’egli modenese, è in questa antologia il campione dell’ortodossia tibulliana, che condivide equilibrio sentimentale, controllo formale e adulazione encomiastica, ma sa trovare i toni anche per consolare la cortigiana Beatrice dell’assassinio dell’amante, di cui celebra in altra poesia la gravidanza, infrangendo i luoghi comuni della conversazione da salotto. Baldassarre Castiglione, il letterato (ma anche politico e militare) del Cortegiano, si dimostra padrone assoluto del codice bucolico e soprattutto, nell’Alcon, delle sue versioni funebri, ma rimane sempre dentro la letteratura; eppure Parenti ne estrae un’epistola metrica – scritta in persona della moglie Ippolita a lui stesso – che ingloba una lettera reale, forzando le norme del genere letterario in un raffinato gioco di specchi.
Di questo Rinascimento libresco diventa esemplare la poesia di Celio Calcagnini, militare e funzionario fra Ferrara e l’Ungheria, che il Giraldi definì «cosparsa di fiorellini splendenti come gemme ma frammischiati in così tanti passi da diventare brutti». Eppure anche lui sa stupirci con il carme sul Carnevale come allegoria della vita che è gioco e teatro, ma che a differenza della vita consente la scelta del ruolo: lo descrive realisticamente come un tempo «in cui era data licenza di girar mascherati per le chiese, i teatri, la reggia; né era delitto palpare arrendevoli seni, far di nascosto una lasciva carezza, e insinuarsi tentatori tra ingenue ragazze», come purtroppo pare sia avvenuto ancora nel capodanno di Colonia qualche anno fa. A un pezzo da novanta (ma non in poesia latina), il cardinal Pietro Bembo maestro di lingua, Parenti tende un piccante tranello antologizzandone un sorprendente carme sulla «piccola menta» (mentula, il membro maschile).
I poeti di spessore arrivano nel secondo volume. Marcantonio Flaminio, irrobustito da preoccupazioni filosofiche e bibliche, innova rilanciando – contro gli strali del Castelvetro – la moda medievale dei salmi poetici, qui in dimetri giambici, ma ricade nella contrapposizione fra stile antichizzante e contenuto religioso, che tornano a essere considerati incompatibili. Proprio per questo la sua poesia resta «una provincia riservata agli aspetti più esteriori, occasionali e mondani», ma almeno è esente da esibizionismo intertestuale e sa fare proprio il materiale di reimpiego, fino a raggiungere accenti personali nel carme per la riconquista del campicello paterno e in quello sulla turunda, indigesta focaccia di semi di canapa insaporiti con mandorle.
Il vertice della raccolta, come annuncia Danzi, è senza dubbio nel sacerdote cremonese e poi vescovo di Alba Marco Girolamo Vida, anch’egli operoso all’ombra di papi e cardinali medicei. Il suo De arte poetica in versi «è il testo in cui la poesia umanistica giunge alla piena consapevolezza di sé, riflettendo con distaccata padronanza dei propri mezzi, sopra la natura, gli scopi e i limiti del suo stesso operare». Vida fu l’unico dotato di respiro epico, che applicò a temi diversi culminando nella Cristiade. Considerato un classico già dai contemporanei come l’Ariosto, aprirà la strada ai poemi biblici di Tasso, Milton e Klopstock: sprigiona figuralità, coralità, dinamicità dei passaggi simbolici, ma anche la partecipazione emotiva assente in quasi tutti gli altri suoi concorrenti e una gestione creativa della narrazione, rispetto alle fonti evangeliche, che ne fanno un adattatore moderno. Miltoniano è il concilio dei demoni che Satana convoca per contrastare la discesa salvifica di Cristo all’inferno, basato sull’apocrifo Vangelo di Nicodemo già ripreso dal Filocolo boccacciano. Vida lo modella sul concilio infernale dell’In Rufinum di Claudiano, ma la statura morale di Satana è nuova e ispirerà a Milton il grandioso affresco iniziale del Paradise Lost. E nemmeno Milton sarà capace di raggiungere la lussuosa sensualità della Maddalena di Vida, che si sdemonia dalle sue presunte debolezze per ungere i piedi di Cristo e che diventerà protagonista della Resurrezione, in una scena ispirata alla divinizzazione di Enea in Ovidio, ma rimodellata sul De ave Phoenice di Lattanzio.
Dopo di lui con Fracastoro entra in scena il nuovo mondo americano, dalla cui esplorazione emersero sia la sifilide sia il guaiaco, la pianta che la guariva, un contesto la cui dirompente alterità scompaginò finalmente l’accademia di fauni e ninfette diventata una realtà virtuale ormai insopportabile. Dopo di lui, anche il vivace sperimentalismo dei Numeri («ritmi», più che «versi») di Niccolò d’Arco e l’orazianismo di Giovanni Della Casa sembrano luce di stelle lontane che brillano ancora ma sono già spente.