Cosa sono l’hip hop, o il rock’n’roll, il metal, il reggae o il pop? Etichette nient’altro che etichette. I canadesi Arcade Fire lo ripetono come un mantra sin dagli esordi: non esistono stili, esiste solo buona musica alla fine. Gli artefici di questa alchimia – alla vigilia del lancio domani del quinto disco, Everything now (il primo distribuito dai tipi della Columbia) sono i due fondatori, Win Butler e la moglie Régine Chassagne che partendo nel 2003 da Montreal come realtà indie sono diventati personaggi capaci di catturare l’attenzione dei magazine, finire in classifica e infilare concerti sold out a ripetizione, compresi quelli delle due recenti date italiane a Milano e Firenze.

Ma il collettivo – ora formato da nove musicisti – stavolta fa un passo deciso ancor più verso la direzione del ritmo, del dancefloor per essere precisi: «Suoniamo musica – hanno spiegato all’apertura del recente concerto milanese – come se stessimo ballando di fronte a una tempesta, proprio come Bruce Springsteen, siamo dancers in the dark. Ce l’abbiamo nel dna». Già, certo che da Funeral – il loro esordio del 2004 per molti uno degli album manifesto del nuovo millennio – lo spettro musicale si è decisamente allargato.

Il filo rosso che lega le tredici nuove canzoni – una scaletta che si apre e si chiude con lo stesso pezzo che intitola l’album – al precedente Reflektor è il ritmo. Qui siamo decisamente dalle parti del pop più smaliziato seppur costruito in maniera certosina, così come tre anni fa avevano fatto i Daft Punk con la loro celebrazione della disco in Random access memories. E non è un caso che tra i produttori ci sia proprio uno dei due membri del duo francese, Thomas Bangalter e perfino Geoff Barrow dei Portishead coinvolto nell’ipnotica Creature comfort. Ci si muove – senza vergogna – sul refrain di tastiera di Everything now che si trasforma in un loop senza soluzione di continuità dove gli Abba incontrano i Chainsmokers, mentre le sezioni d’archi della successiva Signs of life arrivano dalla scuola disco di Monaco. «Per me scrivere canzoni è come comporre una poesia o girare un film», ha spiegato Butler in alcune interviste». Everything now vuole essere il racconto di: «Cosa vuol dire essere vivi oggi. Non è stato semplice sintetizzare il concetto, originariamente avevo scritto un testo lunghissimo che solo gradualmente ho ridotto».

Dentro la cattedrale sonora degli Arcade Fire trovano spazio culture diverse, e se in Reflektor c’era Haiti qui nei suoni e in alcuni arrangiamenti i rimandi all’Africa sono evidenti. La title track si ispira a The coffee cola song del camerunense Francis Bebey; doveva essere un sample ma hanno preferito chiamare in studio il figlio dell’autore, Patrick, che ha suonato il flauto del padre. Un lavoro dove non manca il gusto per la sorpresa,l’evocativa Chemistry si apre come se ci si trovasse in una parata di strada mentre subito dopo un coro ci trasporta su un riff di chitarre che sembra farina del sacco dei No Doubt. Suoneranno maledettamente pop, ma gli Arcade Fire non sbagliano un colpo.