Chiunque si sente legittimato a discutere le loro decisioni: ore e ore di dibattito per vivisezionare le ragioni di un (mancato) fischio, ancor di più in epoca di Var. Il tutto con il soggetto che le ha prese costretto a non poter parlare. L’arbitro è una funzione silente fuori dal campo da gioco. Non ha diritto di parola.
Ora finalmente un «uomo in nero» ha deciso farsi sentire. Scrivendo un libro che per questo è già un evento. L’arbitro Claudio Gavillucci da Latina – coadiuvato da due brave croniste di giudiziaria: Manuela D’Alessandro e Antonietta Ferrante – ha preso la parola per un portentoso j’accuse al mondo arbitrale italiano (L’uomo nero, le verità di un arbitro scomodo, ChiareLettere, 156 pp., 14 euro). Il racconto della sua battaglia per cambiare un sistema omertoso e paludato in cui a dettar legge è da ben 11 anni il signor Marcello Nicchi da Arezzo. Arbitro modesto negli anni novanta – è passato alla storia per aver espulso un giocatore che chiedeva il cambio – diventato presidente inamovibile dell’Associazione italiana arbitri facendo la guerra ad un monumento morale e professionale come Luigi Agnolin per giunta in uscita da Calciopoli, difendendo buona parte del sistema marcio che si fece corrompere da Luciano Moggi e mezza serie A nel momento più buio del calcio italiano.

La storia di Gavillucci è esemplare per tantissimi motivi. Primo dei quali la sua bocciatura dovuta in buona parte ad un altro evento storico: la sospensione di una partita per insulti razzisti nei confronti di Kalidou Koulibaly in Sampdoria-Napoli, penultima di campionato del 2018. La stop di quella partita fa mutare completamente il suo giudizio da parte del «sistema» che inizia a percepirlo come un pericolo e un corpo estraneo. E così se ne libera, retrocedendolo dalla serie A, sfruttando la totale mancanza di trasparenza della valutazione arbitrale: gli arbitri conoscevano i loro voti solo a fine campionato e aggiustare la classifica cambiando i voti è più di un ipotesi. Come si evince dai documenti allegati al libro: arbitraggi «negativi» con valutazioni positive, variazioni di voti da parte del misterioso «organo tecnico».

Ma Gavillucci decide di non stare alle regole di un gioco truccato. E inizia una battaglia giudiziaria sportiva e non (fondamentale la sentenza che equipara l’arbitro ad un pubblico ufficiale) in cui riesce a scoperchiare le magagne dell’intero pallone, ottenendo per la prima volta la possibilità di consultare i documenti di valutazione degli arbitri e dimostrando come siano pezzi di carta a totale servizio del perpetuarsi del sistema.

La guerra legale scatenata da Gavillucci ha episodi surreali e quasi comici: l’attuale presidente della Figc Gravina che ricorre contro una sentenza da lui firmata. Il quadro che ne viene fuori dimostra come gli arbitri siano l’anello debole della catena della «sudditanza». Ben poco pagati rispetto all’Eldorado del pallone, precari annuali che devono lasciare il lavoro e non sanno se lo ritroveranno. Lo è anche il designatore Rizzoli che nel racconto di Gavillucci si piega ai voleri di gattopardismo di Nicchi.

Così Gavillucci per i colleghi diventa il reprobo, quello da cui anche gli amici si allontanano. Illuminante anche il giudizio dello stesso Gavillucci sul Var: da tutti gli arbitri definito «incubo» e finché sarà così lo strumento è quanto meno irrisolto. Gavillucci è ora tornato a lavorare in Inghilterra. E quando può arbitra i campionati giovani inglesi.

Nicchi invece potrebbe ripresentarsi per il quarto mandato – come Putin – alla presidente dell’Aia con la beffarda conseguenza di lasciare gli arbitri senza rappresentanza nel consiglio della Figc: lì il limite dei mandati esiste ancora.
La battaglia di Gavillucci è stata finora perdente. Il sistema, prima beffato dalla seconda sentenza, ha trovato il modo di rendere inutile gli sforzi che in qualunque tribunale avrebbero convinto i giudici quanto meno a rivedere le più autoassolutorie regole.

Il libro ha però il merito di mettere in fila e dare organicità a tutte le nefandezze di un sistema irriformato dopo Calciopoli. Non sarà facile ignorarlo. Nemmeno per chi è abituato ad autoassolversi.