La recente riproposta di Grazie per le magnifiche rose Una scelta (Adelphi «Piccola Biblioteca», pp. 147, euro 14,00) fa riflettere sulla sua complessa vicenda letteraria-culturale di Alberto Arbasino. La domanda è questa: il grande e capriccioso scrittore, il suo «stile» personalissimo, stanno conoscendo nuova fortuna diffusa? Alcuni indizi lo fanno pensare. In premessa va detto che l’insidia maggiore (anche per i critici) nell’accostare Arbasino è il «contagio» delle sue avvolgenti reti: ecfrastiche, citazionali, iper-commentate, da autore-esegeta, aspirante al controllo sovrano. E dell’inconfondibile stile: mix di culture, intertestualità, ipotesti, precisione maniacale, coerenza, edonismo, frivolezze, sberleffi.
Grazie per le magnifiche rose, intitolato a una battuta mondana rétro, era stato pubblicato nel 1965 da Feltrinelli nella collana «Materiali», dedicata al Gruppo 63 e dintorni, e già inclusiva, per Arbasino, di Certi romanzi (poi della Maleducazione teatrale e off-off). Nella grintosa copertina bianca sotto il titolo rosso campeggia «Tutte le avventure della drammaturgia contemporanea», ad annunciare un «repertorio» di spettacoli internazionali (525 pagine!), e un «romanzo critico» sul modello del «Viaggio di Scoperta»-romanzo di formazione, come nel ’63 era stato Fratelli d’Italia.
Questa versione ridotta delle Magnifiche rose, pochi mesi dopo la morte di Arbasino, ha l’aria di un omaggio Adelphi, suo editore dal ’93 (dall’ultimo Fratelli d’Italia, triplicato). Omaggio speciale: per il ritaglio non d’autore, e perché Arbasino non aveva mai ripreso il libro, in quanto «epocale», alla cui ristampa «non ho mai creduto»: così nell’insostituibile «Meridiano» Romanzi e racconti (in due tomi, per le ottime cure di Raffaele Manica ma sotto la ferrea regia dell’autore). In verità tutto Arbasino è «epocale»: perché è l’epoca nel suo insieme (in quel ceto intellettual-mondano-libertino e paraggi, con quella lingua e il «sound del parlato») che egli rincorre tra amore e irrisione. Ma Le magnifiche rose è il primo testo – uscito quando «nessuno viaggiava ancora», Arbasino aveva 35 anni – della serie infinita di viaggi-reportage di cultura e costume in giro per il mondo su oggetti molteplici: arti, mostre, melodrammi, musiche e spettacoli, mondanità, futilità, incontri, mostri sacri e star, flâneries a rotta di collo.
Il decennio sessanta, stagione di giovinezza e di scoperte esplosive, per Arbasino è creativo, di auto-definizione e progettualità sotto il segno di un ibridismo per così dire nativo: «repertorio» e «romanzo-critico», Grazie per le magnifiche rose affianca il «romanzo-conversazione» Fratelli d’Italia, subito associato a Certi romanzi, ’64, «romanzo di un romanzo», colmo di passione strutturalista e di «entusiasmo (…) per la sprovincializzazione». Nel ’66 esce a sé, staccato dai racconti precedenti, L’Anonimo Lombardo, «romanzetto» epistolare, cultural-amoroso, omosex e di iniziazione, beffardo e melò, scaligero, farcito di note stile-Adalgisa. Dopo altre sperimentazioni, il romanzo-riscrittura Super-Eliogabalo,’69, chiude il favoloso decennio.
In ogni opera trionfa la connessione, che ingloba il precetto di Forster «only connect» (solo connettendo). Nel 2000 Arbasino descrive come meglio non si potrebbe il suo simultaneo «intreccio di storie, di immagini»: «ti fa pensare a un quadro mentre leggi un libro il cui ritmo ti ricorda la musica di uno spettacolo visto a Londra o a Broadway». Nel 2016 per Ritratti e immagini: «ciascuno di questi ritratti ‘si morula’ – direbbe Gadda – in infiniti altri ritratti, in altre imprevedibili storie», con montaggio di generi, testi, epoche, in chiave che è insieme Alto-Modernista e Postmoderna. Il duttile romanzo-conversazione, viaggio-reportage-memoria, è ipercolto e minimale, gronda di dettagli ed elenchi, e pesca dalle fitte collaborazioni a giornali e riviste (mai un «secondo mestiere») e dai libri precedenti. Così si svolge la summa America Amore (2011) ancora su scene e incontri anni cinquanta-sessanta.
L’articolazione in blocchi del continuum dotto e scapestrato ne favorisce di per sé una lettura per stralci. Il consiglio arriva con spregiudicatezza proprio da Arbasino (in un’intervista del 1987), nel tentativo ansioso di sottrarre l’opera al tempo (che pure ne sostiene le ossessive riscritture), tutelando il divertimento senza negare l’eccesso: «cerchiamo di giustapporre i frammenti in modo che vi siano dei fili tematici a legarli per così, o per cosà … un libro di frammenti non si deve leggere dall’inizio alla fine, si legge in tutte le direzioni». Per l’eterogenesi dei fini, le Magnifiche rose dell’autunno 2020 si accordano all’invito frammentistico di Arbasino, raccolto in scioltezza anche da Michele Masneri, accondiscendente autore del ritratto «confidenziale» Stile Alberto (Quodlibet «Storie», pp. 155, euro 14,50), limitandolo però all’ultimo Fratelli d’Italia: «inutile pretendere di leggerlo dall’inizio. Va aperto a caso, come l’I Ching», ossia come un testo sapienziale e divinatorio.
Stile Alberto offre alla curiosità dei lettori anche rari cimeli visivi: interni di casa Arbasino e di amici vicini, biglietti-cartoline-dediche, icone della Roma principesca cara ad Arbasino (Laudomia del Drago, o Domietta, la Desideria dei Fratelli d’Italia). Masneri, giornalista del Foglio, è scrittore di qualità con Steve Jobs non abita più qui (Adelphi, 2020), brillante reportage-romanzo da California-San Francisco-Silicon Valley, di inconfondibile sapore-Arbasino però mitigato e aggiornato ai decenni 2000. Avendolo non poco frequentato, Masneri (classe 1974, bresciano) ne dà un profilo anche intimo. Oltre alle leggendarie eleganze e mondanità, ai libri, ai viaggi, racconta la malattia degli ultimi anni, i capricci bisbetici, il compagno di una vita, la cerchia amichevole stretta, le scorrerie gay (gestite da Arbasino con il precetto don’t task don’t tell), la gelosa riservatezza, l’inafferrabilità – forse del libro è per noi l’aspetto più acuto: come il finale «era e voleva essere sempre un ragazzo» –, che rinviano a inquietudini ombrose, a soglie da non varcare, pure da don’t task don’t tell, al radicale anti-profondismo, alle fughe perpetue, al culto accanito della scrittura.
Infine: un terzetto di giovani studiosi dell’Università di Padova promuove per fine maggio un convegno su Arbasino, raro evento. A. A. ha sempre avuto giovani fan (vedi ciò che scrive Masneri sugli scambi febbrili dei volumi), ma qui si intuisce qualcosa di simile a un bilancio odierno. Almeno sinora, nessuno dei promotori ha pubblicato scritti su Arbasino, nella consapevolezza del troppo letto, del tutto detto. Sarà che la sua scrittura resta in qualche modo sempre giovanile, mai sedata, legata alla formazione? Sarà che la sua dismisura trasmette un’idea della letteratura ironica e ludica, ma anche totalizzante, un mestiere e una vita da prendere sul serio, pur ridendone sempre? Una frivolezza vulnerabile, idiosincratica, sfidante, come le riscritture, i viaggi, il racconto senza tregua delle cose viste?