Daniel Arasse

 

Ci sono intelligenze che saltano a piè pari la loro specializzazione: un caso esemplare nella storia dell’arte è Daniel Arasse, nato nel 1944 a Onan (Algeria) e morto a Parigi nel 2003, a soli cinquantanove anni. La solida formazione di normalista (greco, latino, letteratura) si evince in ogni sua pagina. Da ragazzo era stato a Firenze, fu uno choc per lui e l’arte italiana divenne il destino della sua vita e la città baricentro delle sue ricerche: infatti dal 1982 al 1989 diresse l’Istituto Francese di Firenze. La tesi alla Sorbona con André Chastel sull’arte italiana del Rinascimento era dedicata a San Bernardino da Siena e fu causa di un’acre querelle con il maestro, raccontata da Arasse in Histoires de peintures («La Thèse volée»). Cambia relatore e viene accolto da Louis Marin, una figura di primo piano ma decisamente alternativa a quella del talentuoso Chastel. È inutile inseguire Arasse nella sua carriera accademica, che si coronò con l’insegnamento alla École des hautes études en sciences sociales a partire dal 1993. Si dà il caso che quando ero directeur des études a Boulevard Raspail 54, Daniel era a Firenze, per cui ci siamo frequentati assai meno di quanto io avrei desiderato.
L’ultimo volume edito in italiano è L’uomo in gioco I genî del Rinascimento (Einaudi «Grandi Opere», pp. 351, 95 immagini a colori, e 90,00), che, datato 1980, fece seguito a L’uomo in prospettiva. I primitivi italiani, uscito nel 1978 e tradotto anch’esso dallo Struzzo (2019). Due tomi in cui Arasse costruisce con straordinaria dottrina una storia critica dell’arte italiana che abbraccia tre secoli di pittura con al centro il Cinquecento, il grand siècle, e la nascita della maniera individuale dell’artista: il disegno che ne sortisce è di un secolo in continua trasformazione e quanto mai problematico, con, per apici, la terribilità di Michelangelo e la divina grazia di Raffaello. Per rendersi conto del tipo di analisi conviene leggere le dense pagine dedicate al Leonardo di Sant’Anna, la Vergine e il Bambino del Louvre: «Le figure, nell’insieme, formano una massa piena, ma non compatta, grazie all’equilibrio dei movimenti».
I capitoli del volume sono i seguenti: «I genî e la loro epoca», «La breve armonia del Rinascimento»», «La “maniera italiana”», «Il superamento della “maniera”», «L’uomo in gioco». Al testo introduttivo di ciascun capitolo Arasse associa delle opere con una lunga didascalia di presentazione: nel primo – a mo’ d’esempio – Paolo III con i nipoti di Tiziano, Bronzino con l’Allegoria del trionfo di Venere, Leonardo con l’opera già menzionata e con Monna Lisa, Michelangelo con il Tondo Doni e l’affresco con il Supplizio di Aman. Sono opere paradigmatiche che Arasse dipana nel suo discorso. Dalle sue scelte emerge con forte evidenza la contrapposizione tra le Deposizioni di Rosso Fiorentino (Volterra, Pinacoteca), e di Pontormo (Firenze, Santa Felicita). Sono facce di una stessa medaglia che è la «maniera», ma contrapposte e non conciliabili: qui emerge la distinzione elaborata da Arasse tra «primitivo» e «moderno», tra «genio», come elaborato dal neoplatonismo, e «studio», in cui si afferma l’espressione individuale. Così come, partendo dalla pittura di «devozione», egli giunge a definire la pittura di «storia», creando una nuova iconografia che rilegge sotto una inedita luce quanto scaturisce da una stagione dell’arte in prodigioso fermento. E il talento di Arasse si riconosce nel gioco dei rimandi e delle connessioni, nell’inesauribile capacità di legare cose, fatti, opere ed eventi in quanto parte non solo della storia dell’arte ma della civiltà di una cultura dominante che riconosce nell’Italia.
Un’Italia non affatto pacificata nelle sue tradizionali e secolari contese: il disegno fiorentino e il colore veneziano in primis. Arasse adotta il consueto ordine cronologico nella narrazione, ma non è un semplice succedersi di generazioni: si serve di rado del concetto di «influenza», anche se nello stesso pittore ci sono momenti di cambiamento in riferimento alle diverse influenze subite. «La pratica combinatoria delle forme e degli stili non è subita passivamente, ma piuttosto consapevolmente utilizzata a fini espressivi ed estetici».
Di qui la rilevanza del Manierismo, che fu italiano in origine ma divenne poi europeo. Sul piano storiografico fu la grande scuola tedesca – per larga parte emigrata in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – a dare un’originale lettura di questa grande stagione prima appiattita nella dizione «Tardo Rinascimento». Un termine peggiorativo era stato in esordio «maniera», inteso nel senso di «manierato». Arasse indica l’arco di tempo essenziale, 1515-’85, in cui il Manierismo compie un’evoluzione strettamente connessa alle realtà alle quali «dà forma». È il centro del suo volume, imperniato sulla descrizione di numerosi meccanismi che sono propri della «maniera» e fanno da contrappunto alle narrazioni cronologiche riguardanti i singoli protagonisti.
Arasse è uno scrittore di limpida e misurata chiarezza, non si serve infatti delle figure stilistiche regine dell’ékphrasis nei critici d’arte, che sono l’elencazione/accumulazione e l’analogia, necessità vitale e imprescindibile da John Ruskin in poi fino al suo erede massimo Roberto Longhi, che dell’analogia fu un virtuoso senza pari. Non è un caso però che in un saggio così denso di riferimenti qual è quello di Arasse non ricorra mai il nome del maestro di Alba. La tastiera della sua scrittura è altra, come ben si vede in Storie di pitture, un testo di felice divulgazione dove furono raccolte venticinque puntate trasmesse da France Culture nell’estate del 2003, pochi mesi prima che se ne andasse (libro anche questo tradotto da Einaudi, 2014). Ora che ne scrivo odo ancora la bella, modulata voce dello straordinario divulgatore che Daniel fu.
Ma conviene ritornare a L’uomo in gioco. È anche utile prendere ad esempio i paragrafi che scandiscono il capitolo II: «Firenze, inizio secolo», «Roma, 1508-1520», «Venezia, 1508-1520», «Le altre vie della modernità e le reticenze». In questa scansione è tutto di una chiarezza che può apparire persino scolastica, ma essa è preziosa per intendere la geografia dell’arte italiana privilegiata da Arasse. Tracciata con una fermezza che non mi fa escludere che conoscesse il classico saggio di Carlo Dionisotti sulla geografia della letteratura italiana. Ma la geografia dell’arte di Arasse mi induce – imprudentemente? – a pensarlo. In essa è evidente la specificità delle proprie determinazioni, dove l’imitazione della natura continua a essere il principio fondamentale, ma si fa strada anche la valorizzazione della «finzione», che lentamente, nel corso del Cinquecento, si afferma come l’idea di una «imitazione fantastica» che «finge» – per risalire a Platone –, ovvero imita, rendendo verosimile ciò che in natura non esiste. Così nasce una coscienza propriamente estetica: l’arte e l’immagine inventano il mondo che rappresentano con ricadute del fenomeno che va ben oltre il secolo designato. Pagine, queste di Daniel Arasse, che non si possono surrogare e leggere tanto per distrarsi: esigono concentrazione e una buona dose di patientia, che è essa stessa una forma di conoscenza.