La piccola Ulala” di Takeru Aoki, un ritratto su carta disegnato con matite colorate, pastelli, stilografica e pennarello, è un mascherone con le guance sottolineate da enormi chiazze rosse ciliegia. Nel viso bianchissimo spiccano gli occhi, uno aperto l’altro socchiuso, definiti nei minimi particolari con le ciglia, la pupilla, l’iride ben visibili. Nel suo raptus creativo preme tanto la penna da arrivare quasi a lacerare le carta su cui lavora. Ulala è un’eroina dei disegni animati che guardava da ragazzo. Ama tuttora ritrarre i personaggi celebri che vede alla televisione come la cantante Aki o il campione di catch Abdullah. Vissuto per parecchi anni in un centro specializzato per disadattati, vive ora con il padre. Hiroshi Fukao, nato nella provincia di Shiga, comincia a creare le sue prime opere di ceramica durante il soggiorno in un’istituzione specializzata per bambini problematici. Sono immagini umanoidi che chiama figurine samurai. Poi fabbrica dei simil-pesci, giraffe, leoni che vede fotografati nei libri. Mentre modella, non smette ma di parlare e sorride, contento di quello che riesce a creare.

Le sue piccole sculture di animali fissate su dei dischi di ceramica piatti o curvi, sono animali di fantasia che possono assomigliare a conigli dalle lunghe orecchie, topini, pesci con due pinne finali simili a piccole gambe. Ma tutti hanno due o addirittura quattro buchetti rotondi, occhi vuoti che guardano senza vedere. Makoto Fukui, che è nato in provincia di Nagasaki, ha cominciato a disegnare quando gli è stata diagnosticata una forma di schizofrenia. Le allucinazioni visive e uditive gli procurano una enorme angoscia perché si sente continuamente osservato. Riesce però a liberarsene disegnando in continuazione innumerevoli figure variopinte che si ammassano sulla pagina riempiendo tutto il foglio e sovrapponendosi in un delirio da horror vacui. Ma la loro caratteristica principale è l’occhio, enorme rispetto al corpo, sottolineato dal colore acceso che spicca sulla fantasmagoria di colori di questi strani animali, simili a polipi, stelle con la coda, quadrupedi con grandi bocche spalancate su denti aguzzi, aquiloni a forma di cactus, pesci a strisce. Disegna su carta da fotocopie meno costosa e, per rendere più grande lo spazio da riempire, incolla tra loro più fogli.

Takeru Aoki, Hiroshi Fukao, Makoto Fukui sono solo tre degli artisti della cinquantina presenti nella mostra “Art Brut Japonais II” alla Halle Saint Pierre di Parigi fino al 10 marzo. Il primo a definirla così è stato il pittore Jean Dubuffet per indicare le produzioni artistiche realizzate da non professionisti o ospiti di istituzioni psichiatriche che operano senza conoscere la storia dell’arte né le sue tecniche, liberi da sovrastrutture culturali e estetiche. Un’attività artistica pura, istintiva, nell’interezza delle sue varie fasi partendo solo dalle proprie pulsioni, che suscitato l’interesse del neurologo Oliver Sacks. Nei suoi libri tra le tante storie cliniche terribili e affascinanti racconta l’esperienza con José, l’artista autistico, diventato tale dopo una malattia cerebrale. Nei suoi disegni ha dimostrato “una vivace fantasia, una passione e un talento non comuni come se fossero l’unico legame con il mondo esterno, il mondo degli animali, delle piante, della natura, che aveva tanto amato da piccolo, specialmente quando andava a disegnare all’aperto con suo padre”.

Kazu Suzuki, Satoshi Morita, Misuzu Seko costruiscono opere singolari con i filati. Suzuki usa cotone, lana e fibre sintetiche per realizzare delle costruzioni verticali. Alte più di quattro metri sono vere e proprie colonne colorate, aggrovigliate, che si appendono al soffitto come tazebao. Ne produce solo tre in un anno. Il più strano, dai colori cupi, blu, nero, viola, termina con una specie di piede avvolto in bende giallo-azzurre. I ricami di Morita e della più giovane Seko sono realizzati anch’essi con fili di cotone, lana e acrilico ma assumono forme tradizionali. Sono quadrati o rotondi, ma hanno caratteristiche molto diverse. A Morita non interessa tanto il risultato finale, ma il modo in cui lo fa. Con l’ago e il filo compie dei gesti sempre uguali, come un rituale che calma le sue ansie. Seko comincia con lo scegliere un filo che le piace, poi fa un nodo a occhiello all’estremità e ripete lo stesso gesto finché i nodi e i fili si mescolano in un gioco intricato di colori che danno un fascino particolare ai suoi lavori.

I paraventi di Marie Suzuki, oggetti tipici dell’arredamento giapponese, hanno colori forti. Il rosso del sangue, il nero della notte, il blu profondo dell’oceano. Nei suoi disegni gli organi genitali, i seni, le gambe e le forbici sono metafore esplicite buttate in faccia a chi li guarda. La sua tecnica, ottenuta con i pennarelli, comincia dai contorni e poi riempie il disegno con un metodo particolare che assomiglia al pointillisme. Le dita che strizzano un capezzolo, le gambe deformi, i visi dalle grandi bocche ghignanti sono mescolati a fiori aperti come vagine. C’è in queste immagini tutta la sua avversione per gli organi genitali maschili e femminili. All’inizio, preoccupata dallo sguardo degli altri, reprimeva il suo desiderio di disegnare, ma da quando se n’è liberata ora disegna tutti i giorni. Takayuki Ayama lavora nel centro d’igiene mentale dove fabbrica perle di vetro. Ma esprime la sua vocazione artistica lavorando il legno. Utilizza una saldatrice per incidere i contorni dei suoi disegni che poi dipinge con matite colorate. Buoi, pesci, tigri, rane dai colori vivaci rendono le sue tavole affascinanti. Yoshihiro Watanabe passa il suo tempo all’aperto e osserva gli insetti, gli uccelli, i pesci. Un qualsiasi pezzo di carta si trasforma nelle sue mani in un piccolo animale. La scoperta più clamorosa sono state le foglie di quercia che usa nel momento in cui il loro grado di umidità e il loro stato di decomposizione le rendono malleabili. I suoi “Ohira”, in giapponese foglie piegate, diventano piccoli topi, cani, giraffe, leoni, polli.

Yukio Karaki aveva quindici anni quando la bomba atomica esplose su Hiroshima a soli tre chilometri da casa sua. Ha potuto vedere con i suoi occhi gli effetti che il fungo produceva sulle persone. Uomini, donne, bambini dalla pelle bruciata, i vestiti stracciati, vagavano per le strade cercando di capire quello che era successo. Corpi che sottoposti al calore si gonfiavano come palloni.

Queste immagini-incubo lo hanno angosciato per tutta la vita. Solo invecchiando ha dipinto undici quadri a olio accompagnati da un testo in cui descriveva le scene più agghiaccianti. Il grande fungo che si alza nel cielo sopra le case che bruciano. I corpi che galleggiano sull’acqua trascinati dalla corrente. Il sole anomalo dell’esplosione rosso bruno con i raggi di un giallo malsano che ricopre tutta la città. Nel 2004 ha regalato le sue opere al Museo di Kyoto per la pace mondiale presso l’Università di Ritsumeikan. Anche Masaki Hironaka, come Karaki è un “hibakusha”, cioè un sopravvissuto ai bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nakasaki.

Aveva solo sei anni e abitava a meno di quattro chilometri dall’epicentro dell’esplosione. Solo quando ha smesso di lavorare comincia a riprodurre su un album i ricordi di quel giorno. Nei piccoli schizzi si vede il fungo , le persone con le schiene piagate, i ricoverati in ospedale, la città rasa al suolo, i bambini testimoni dell’avvenimento. Tutti in bianco e nero, solo con tocchi di colore dove era necessario far capire un particolare. Gli hibakusha non hanno raccontato per lungo tempo della loro terribile esperienza. Prima per la censura americana che impediva loro di parlarne in pubblico fino al 1952. Poi per la riservatezza tradizionale dei giapponesi che gli rende difficile esprimere i propri sentimenti. Questi dipinti e disegni ci scuotono e ci mostrano la guerra per quello che è, nient’altro che una carneficina priva di senso.